Falsa detrazione di assegno familiare? E’ truffa!

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L’imprenditore che porta in detrazione gli assegni familiari senza corrisponderli ai propri dipendenti è punibile per truffa e non per semplice evasione contributiva. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza 8537/2010, secondo la quale la fittizia esposizione di somme non corrisposte al lavoratore induce in errore l’istituto previdenziale sul diritto al conguaglio, realizzando, in tal modo, un ingiusto profitto, tipico del reato di truffa.
L’omissione e l’evasione contributiva
I c.d. contributi vengono definiti come “quote di retribuzione” o di “reddito di lavoro”, aventi una particolare destinazione assistenziale e/o previdenziale determinata dalla legge. Il versamento di detti contributi, da parte del datore di lavoro, è obbligatorio e la loro riscossione è affidata agli enti di previdenza i quali, solitamente, si occupano anche dell’erogazione delle prestazioni nonché del controllo sulla corretta applicazione della legge.
Come accennato, i contributi possono essere di due tipologie: a) contributi assistenziali; b) contributi previdenziali. I primi sono costituiti dai versamenti effettuati all’Inps o all’Inail per ottenere la copertura di rischi collegati all’espletamento dell’attività lavorativa, mentre i secondi sono costituiti da versamenti periodici di denaro effettuati, nei confronti dell’ente previdenziale, da parte del datore di lavoro, allo scopo di ottenere la prestazione pensionistica.
Sebbene l’onere contributivo veda, quali protagonisti attivi, sia il lavoratore che il datore di lavoro, l’obbligo di versamento dei contributi grava esclusivamente in capo a quest’ultimo. A tal proposito, l’art. 37, primo comma, della legge 689/1981, a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 23 dicembre 2000, n. 388, dispone che, salvo che il fatto costituisca più grave reato, il datore di lavoro che, al fine di non versare in tutto o in parte contributi e premi previsti dalle leggi sulla previdenza e assistenza obbligatorie, ometta una o più registrazioni o denunce obbligatorie, ovvero esegua una o più denunce obbligatorie in tutto o, in, parte, non conformi al vero, sia punito con la reclusione fino a due anni, se dal fatto derivi l’omesso versamento di contributi e premi previsti dalle leggi sulla previdenza e assistenza obbligatorie, per un importo mensile non inferiore al maggiore importo fra cinque milioni mensili e il cinquanta per cento dei contributi complessivamente dovuti.
E’ possibile distinguere due diverse tipologie di condotte punibili. Da un lato abbiamo la c.d. omissione contributiva, che si verifica allorquando vi sia un mero ritardo nel pagamento dei contributi di cui sopra, documentabile dalle registrazioni obbligatorie denunciate dal datore di lavoro e, dall’altro, l’evasione contributiva, la quale si configura quando il datore di lavoro occulti o ometta di effettuare le registrazioni o le denunce contributive.
La struttura del delitto di truffa, ex art. 640 c.p.
Nell’esaminare, sommariamente, la struttura del fatto tipico del delitto di truffa, la condotta incriminata dall’art. 640 c.p. consiste, in linea di prima approssimazione, in un’attività finalizzata alla persuasione, mediante inganno, che la legge tipizza mediante “artifizi o raggiri”, determinanti di un errore in capo alla vittima, a sua volta produttivo dell’ulteriore evento costituito dal danno patrimoniale, con ingiusto profitto per sé o per altri.
Gli artifizi vengono tradizionalmente individuati come una manipolazione della realtà esterna, provocata attraverso la simulazione di circostanze inesistenti o dissimulazione di circostanze esistenti, mentre il raggiro può essere definito come un’attività simulatrice, sorretta da argomentazioni atte a far scambiare il falso per il vero ([i]).
Gli artifici ed i raggiri devono generare un primo risultato, costituito dall’errore della vittima; con tale termine dobbiamo intendere la falsa o distorta rappresentazione di una situazione fattuale idonea ad incidere sulla formazione della volontà. Si ritiene che la truffa non si possa configurare nel caso di ignoranza pura, posto che l’induzione non è il fatto di lasciare il soggetto passivo nell’ignoranza, ma nel generare un falso convincimento ([ii]).
La condotta del soggetto agente, all’interno del delitto di truffa, è, fin dall’inizio, diretta a far sì che la vittima, in conseguenza dell’errore, si determini al compimento di un atto di disposizione patrimoniale, il quale rappresenta un componente essenziale, sebbene si tratti di un requisito tacito, della fattispecie di cui all’art. 640 c.p. Come evidenziato da accorta dottrina, l’atto di disposizione patrimoniale segna il passaggio da un fenomeno interno alla psiche del soggetto passivo ad un effetto esterno consistente nel trasferimento patrimoniale ([iii]). Il contenuto dell’atto patrimoniale, il quale può discendere sia da una condotta attiva che omissiva, può essere di più diversa natura: può consistere non solo in un negozio giuridico in senso stretto, potendo configurarsi anche in una mera consegna di beni mobili o immobili, nel consenso all’uso, nell’esecuzione di obbligazioni o nell’accettazione di oneri o di pesi ([iv]).
L’atto di disposizione patrimoniale deve avere quale conseguenza la produzione di un danno in capo alla vittima. Con tale termine si intende, pacificamente, far riferimento al c.d. danno patrimoniale, ovvero quello consistente in una deminutio patrimonii. La dottrina è concorde nel ritenere che, all’interno del concetto di danno, possano essere ricomprese anche le cose aventi valore affettivo posto che, per il diritto penale, anche tali beni entrano a far parte del patrimonio dell’individuo ([v]).
Al danno per la vittima, infine, deve corrispondere un ingiusto profitto per il colpevole o per altri; Dobbiamo ritenere che il profitto di cui parla l’art. 640 c.p. non debba necessariamente essere di natura economica. Quello che è necessario è che il profitto sia “ingiusto”, ovvero non giustificato in alcun modo dall’ordinamento giuridico.
La soluzione accolta dalla Suprema Corte
Dopo aver precisato, per sommi capi, i requisiti strutturali del delitto di truffa, apparirà chiara la soluzione alla quale sono giunti i giudici della Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione. Attraverso la pronuncia in rassegna, il giudice nomofilattico ribadisce il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale il datore di lavoro che, per mezzo dell’artificio costituito dalla fittizia esposizione di somme come corrisposte al lavoratore, induce in errore l’istituto previdenziale sul diritto al conguaglio di dette somme, invero mai corrisposte, realizzando così un ingiusto profitto, risponde di truffa e non già una semplice evasione contributiva, di cui all’art. 37 della legge 689/1981 ([vi]).
Dall’esame della fattispecie appare evidente la ricorrenza di tutti i requisiti essenziali del delitto di truffa; in primis l’attività ingannatoria del datore di lavoro il quale, esponendo in maniera fittizia le somme corrisposte al lavoratore, pone in essere una condotta idonea a trarre in inganno l’istituto previdenziale. Tale attività è sicuramente produttiva di un atto di disposizione patrimoniale, avente contenuto negativo, produttivo, a sua volta, di un ingiusto profitto per l’imprenditore con conseguente danno per l’amministrazione e per il lavoratore, quantificabile nella somma di denaro non corrisposta dal primo.
(Altalex, 18 marzo 2010. Nota di Simone Marani)
Fonte: http://www.altalex.com/index.php?idu=143290&cmd5=ac265b1bc42e01dbe234216e9f6c78ee&idnot=49565