Antieconomicità ingiustificata? Va bene l’analitico-induttivo

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Un comportamento fuori dai canoni tradizionali dell’attività d’impresa è sintomatico di evasione
Legittimo l’accertamento induttivo nei confronti di un’azienda che, pur vantando dei crediti nei confronti di clienti, non ha iscritto i relativi interessi in bilancio. Non solo. È il contribuente a dover provare il perché di un comportamento “antieconomico”. Tale comportamento, se non adeguatamente giustificato, costituisce elemento legittimante il ricorso all’accertamento analitico-induttivo.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza n. 9469 del 21 aprile, in accoglimento del ricorso prodotto dall’Amministrazione finanziaria.
La Suprema corte ha precisato a chi spetta l’onere della prova anche con la concomitante sentenza n. 9476/2010 con la quale affronta, invece, la spinosa questione dell’onere probatorio in tema di fatture ritenute false.

Il fatto
A seguito di processo verbale di constatazione della Guardia di finanza, che aveva evidenziato l’omessa contabilizzazione di interessi su crediti vantati verso clienti da parte di una società per azioni, l’ufficio fiscale aveva proceduto alla notifica del relativo avviso di accertamento per conseguente maggior reddito Irpeg e Ilor. La contribuente si rivolgeva alla Ctp, che rigettava il ricorso.
L’appello proposto dalla Spa trovava credito dinanzi la Commissione regionale, secondo cui l’ente impositore non avrebbe fornito la prova dell’effettiva percezione degli interessi sui quali si fondava l’accertamento.

La sentenza del riesame viene contestata con ricorso per cassazione, con cui l’Amministrazione finanziaria deduce violazione di legge sia in tema di accertamento (articolo 39, Dpr 600/1973), sia in tema di onere della prova (articolo 2697, codice civile), avendo ritenuto la Ctr che non spettava al contribuente provare la mancata percezione degli interessi attivi su crediti vantati nei confronti di clienti. L’ente impositore contesta, inoltre, l’assunto del giudice di merito relativo alla circostanza che la prova del contribuente dei cespiti non reclamati deve irradiarsi anche “all’inerenza e all’imputabilità ad attività produttive di ricavi”.

In particolare, l’articolo 39, comma 2, lettera d), del Dpr 600/1973 legittima l’accertamento induttivo quando la contabilità risulta inattendibile per effetto di irregolarità gravi, numerose e ripetute, così individuate:
– omissioni e false o inesatte indicazioni accertate ai sensi del comma 1, dello stesso articolo
– irregolarità formali risultanti dal verbale di ispezione.
La formulazione della lettera d) prevede, quindi, sia un requisito di natura sostanziale (omissioni, false o inesatte indicazioni riscontrate nella contabilità), sia un requisito di natura formale (irregolarità formali).

La Cassazione, con sentenza 8273/2003, ha poi distinto tra le irregolarità della contabilità meno gravi contemplate dal comma 1 dell’articolo 39 (a fronte delle quali l’Amministrazione può procedere a rettifica analitica, utilizzando gli stessi dati forniti dal contribuente, ovvero dimostrando, anche per presunzioni, purché munite dei requisiti di cui all’articolo 2729 del codice civile) e l’inesattezza o incompletezza delle scritture (che autorizzano l’Amministrazione a prescindere da esse e a procedere in via induttiva, avvalendosi anche di semplici indizi sforniti dei requisiti necessari per costituire prova presuntiva).

La decisione della Cassazione
Con la sentenza 9469/2010, il Collegio di legittimità ritiene condivisibili le censure dell’Amministrazione inerenti la natura antieconomica dell’omessa percezione degli interessi con i correlati riflessi sull’onere della prova.
Infatti, la percezione di interessi attivi a seguito di crediti vantati verso clienti è presunta in quanto, in caso contrario, verrebbe integrato un comportamento del contribuente manifestamente e inspie-gabilmente antieconomico, con la conseguenza che l’onere probatorio contrario, relativo alla non percezione di tali somme, incombe sul contribuente stesso.
In particolare, la Suprema corte rileva che, nonostante l’attendibilità formale della contabilità, si è in presenza di un comportamento manifestamente antieconomico della società e, quindi, correttamente l’ufficio poteva operare la rettifica della dichiarazione.

Tale principio è sedimentato da reiterati interventi uniformi di legittimità (tra le altre, sentenze nn. 11645/2001, 7487/2002, 18857/2007, 24532/2007), ove viene affermato che l’articolo 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/1973, “consente l’accertamento induttivo del reddito, pur in presenza di scritture contabili formalmente corrette, qualora la contabilità possa essere considerata complessivamente ed essenzialmente inattendibile, in quanto confliggente con regole fondamentali di ragionevolezza”.
Analogamente, in tema di imposta sul valore aggiunto, la Suprema corte ha stabilito (sentenza 14428/2005) che, qualora il contribuente tenga un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia, è legittimo l’accertamento dell’imponibile Iva ai sensi dell’articolo 55 del Dpr 633/1972 e che il giudice di merito, per poter annullare l’accertamento, deve specificare, con argomenti validi, le ragioni per le quali ritiene che l’antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatica di possibili violazioni di disposizioni tributarie.

Nelle numerose pronunce sull’argomento, la Cassazione ha privilegiato le ragioni dell’ente impositore, sancendo, in definitiva, il principio secondo il quale, in tema di imposte sui redditi, laddove si ravvisi un comportamento non in linea con i canoni dell’economicità, grava sul contribuente l’onere di illustrare e comprovare le ragioni sottese a tale comportamento (cfr Cassazione, sentenze nn. 13478/2001, 15268/2000, 7803/2000). Questo perché, la regola alla quale si ispira chiunque svolga un’attività economica è quella di ridurre i costi. Pertanto, in presenza di un comportamento che sfugga a questo parametro di buon senso e in assenza di una sua diversa giustificazione razionale, è legittimo il fondato sospetto che l’incongruenza sia soltanto apparente e che dietro di essa si celi invece una diversa realtà (cfr sentenze nn. 1821/2001, 7680/2002, 10802/2002, 5870/2003, 20748/2006, 1712/2007).
In tali casi, è quindi consentito all’ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici – purché gravi, precise e concordanti – maggiori ricavi o minori costi, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente (Cassazione, sentenza n. 6337/2002).

In ultima analisi, le molteplici pronunce richiamate, ancorché con sfumature diverse e con riferimenti a situazioni specifiche dotate, inevitabilmente, di elementi di peculiarità, riconoscono la possibilità di considerare il comportamento antieconomico (e non altrimenti giustificato) del contribuente come presunzione di un comportamento “evasivo”.
Con la sentenza in esame viene, dunque, confermato il consolidato orientamento di legittimità secondo cui il comportamento antieconomico dell’imprenditore viene a integrare, se non adeguatamente giustificato dal contribuente, gli elementi indiziari legislativamente richiesti al fine della legittimità dell’accertamento induttivo.

Crediti commerciali non azionati
Quanto alla rilevata natura antieconomica derivante dalla mancata contabilizzazione e, quindi, percezione, degli interessi su crediti vantati dalla società verso propri clienti, la Corte argomenta che:
a) il credito sorto sulla base di un rapporto commerciale viene qualificato come capitali dati a mutuo
b) il mutuo è, per sua natura, produttivo di frutti (interessi)
c) gli interessi devono trovare posto nel conto economico.
Poiché, nel caso in questione, di tali interessi non v’è traccia nel bilancio, la conclusione non può che essere nel senso dell’evasione tributaria.

A tal proposito, la Cassazione ricorda che la fruttuosità delle somme concesse a mutuo è presunta sia nella norma civilistica sia nel Tuir, tant’è che, in ambito fiscale, la disposizione contenuta nell’articolo 43 del Dpr 597/1973, concernente la determinazione del reddito di capitale ai fini Irpef, nel testo riferibile alla fattispecie ratione temporis, prevede, per presunzione, la produzione di interessi legali da capitali dati a mutuo. Tale presunzione può essere esclusa soltanto laddove sia acquisita la prova dell’esonero dall’obbligo del pagamento da parte del mutuatario.
In questa occasione la Corte ha ritenuto che l’articolo 43 si applichi anche alle società commerciali, giacché l’articolo 5 del previgente Dpr 598/1973, relativo alla determinazione del reddito complessivo Irpeg, estende ai contribuenti soggetti a tale imposta la normativa stabilita in materia di Irpef, salvo esplicite e diverse regolamentazioni (cfr Cassazione, sentenze nn. 10526/1994 e 9498/2008).

Peraltro, proprio con particolare riferimento a crediti fra società dello stesso gruppo, la Corte di legittimità ha affermato il principio secondo cui gli interessi attivi e passivi costituiscono, rispettivamente, entrate o uscite di ciascun contribuente e debbono essere specificamente conteggiati, in virtù dei principi di trasparenza contenuti nell’articolo 2423 del codice civile (Il bilancio deve essere redatto con chiarezza e deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio). Non assuma alcun rilievo – a tal fine – il fatto che i rapporti di credito e debito, fonte degli interessi in questione, intercorrano fra società del medesimo gruppo, di guisa che agli effetti del gruppo si determini una mera partita di giro (Cassazione, sentenza n. 21157/2008).

È poi irrilevante, per l’effetto, la possibile asserzione secondo cui l’omessa contabilizzazione di interessi attivi e passivi non determinerebbe sottrazione di “materiale imponibile”, quando la Corte ha invece più volte affermato che i principi attinenti alla regolare registrazione di entrate e uscite debbono essere rigorosamente rispettati e il Fisco è legittimato a disconoscere ogni irregolarità, depennando una spesa conteggiata in annualità diversa rispetto a quella di pertinenza, ancorché la spesa possa essere correttamente dedotta in altra annualità, inserendo fra le poste attive interessi maturati a vantaggio del contribuente sebbene tali interessi possano costituire una passività nel bilancio di altra società collegata, tenuta a versarli (Cassazione, sentenza. n. 21158/2008).

Infine, secondo le stesse trame interpretative, proprio sulla base del principio antieconomico, l’eventuale non pagamento di interessi deve essere dimostrato dal contribuente e non provato dal Fisco.
Se è vero, infatti, che in tema di accertamento delle imposte sui redditi spetta all’Amministrazione finanziaria dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi della (maggiore) pretesa tributaria, fornendo quindi prova di elementi e circostanze a suo avviso rivelatori dell’esistenza di un maggiore imponibile, è altrettanto vero, però, che il contribuente, il quale intenda contestare la capacità dimostrativa di quei fatti, oppure sostenere l’esistenza di circostanze modificative o estintive dei medesimi, deve a sua volta dimostrare gli elementi sui quali le sue eccezioni si fondano.
Salvatore Servidio

Fonte: http://www.nuovofiscooggi.it/giurisprudenza/articolo/antieconomicita-ingiustificata-va-bene-l-analitico-induttivo