Il peccato originale dell’area euro

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di Giancarlo Corsetti

Per molti anni, i paesi dell’area euro hanno preso a prestito emettendo titoli denominati nella valuta comune. Che sembrava produrre una difesa automatica dai problemi associati con il “peccato originale”, mettendo i grandi debitori al riparo dai movimenti del cambio. Non è più così. Non solo l’Europa nel suo complesso, ma anche i paesi forti si avvantaggerebbero da una ripresa di investimenti e spesa. Rimane il problema di come renderla possibile, in una situazione di logoramento fiscale diffuso dopo ventiquattro mesi di crisi e parecchie ombre sui segnali di ripresa.
In molti paesi dell’area euro i problemi fiscali (alto debito o alto disavanzo) si sommano a problemi di competitività. I primi richiedono misure decise di correzione fiscale, i secondi si traducono in bassa crescita. Senza crescita, la correzione fiscale è pesante: maggiori imposte e meno trasferimenti riducono redditi già stagnanti, mentre i tagli alla spesa abbassano il livello di offerta di beni pubblici. Senza correzione fiscale, le prospettive di ripresa economica sono minate dal rischio paese: chi investirebbe in aree di instabilità macroeconomica e soggette ad attacchi speculativi?
L’ESEMPIO DEI PAESI BALTICI
La soluzione per riavviare la crescita in questi paesi, si dice, passa dal recupero di competitività. Come? Con una moneta unica, che esclude manovre del cambio, si può comunque attuare una “svalutazione interna”, ovvero una riduzione dei costi (salari e redditi) in termini nominali. A mali estremi, estremi rimedi: ad esempio il governo potrebbe prescrivere un taglio coordinato dei salari contrattuali – tutti i salari, non solo quelli della pubblica amministrazione.
Può funzionare? Dopotutto, i paesi baltici che hanno sperimentato misure simili sostengono di avere ottenuto buoni risultati. Hanno anche caratteristiche strutturali che li rendono diversi dalla media dei paesi dell’euro: sono piccoli, hanno una struttura politica che sembra capace di favorire accordi istituzionali su decisioni difficili, hanno un potenziale di crescita elevato per via dello stadio di sviluppo delle loro economie e della loro struttura demografica; infine, hanno un debito pubblico contenuto (ma un debito estero elevato).
Ignoriamo per il momento la domanda se svalutazioni interne simili a quelle degli stati baltici siano politicamente e istituzionalmente fattibili in paesi come Grecia, Portogallo, Spagna e via dicendo. E chiediamoci se possano veramente aiutare questi paesi a risolvere l’impasse alla radice della loro crisi.
IL PROBLEMA DEL DEBITO PUBBLICO
Il problema è il livello di debito pubblico. A parità di condizioni, in un paese con uno stock di debito pari al 100 per cento del Pil, una svalutazione interna del 20 per cento (una stima di quanto necessario per “recuperare produttivita” nel sud dell’Europa) si tradurrebbe in un aumento equivalente del valore delle passività del settore pubblico, in termini di beni e servizi prodotti. Ovviamente, il governo avrebbe benefici fiscali sul lato della spesa: in termini nominali, salari pubblici e pensioni cadrebbero del 20 per cento. Ma anche il gettito delle imposte cadrebbero con la svalutazione. L’effetto immediato si sentirebbe certamente sul piano del bilancio pubblico: se il governo cambia tutti i contratti nominali a eccezione di quelli finanziari, una caduta dei prezzi interni in euro significa semplicemente che i contribuenti devono di più a chi detiene il debito pubblico del paese nel proprio portafoglio.
Lo stesso vale per il debito privato. Le imprese avrebbero l’ovvio vantaggio di vedere i propri costi cadere con i salari nominali, ma, se la svalutazione interna funziona, soffrirebbero di una caduta del loro fatturato nel mercato nazionale. Ad avere i benefici maggiori, dovrebbero essere le imprese esportatrici perché hanno margini di manovra per mantenere i prezzi alle esportazioni più alti di quelli interni, discriminando tra mercati.
Per funzionare, la svalutazione interna dovrebbe aumentare la crescita al punto che l’incremento delle passività pubbliche e private in termini di unità di prodotto interno è più che compensato dall’aumento nel volume di produzione: ciò produrrebbe più gettito fiscale e risparmi nella spesa sociale per il governo, nonché maggiori profitti per le imprese.
Questo è certamente possibile, ma poco plausibile. Nei paesi di cui stiamo discutendo, le cause della bassa crescita e della perdita di competitività sono strutturali. Èdifficile che la soluzione sia (solo) una svalutazione interna: nel migliore dei casi può offrire una “boccata di ossigeno” nel breve periodo, ma più probabilmente il suo impatto sarà negativo, per via degli effetti di bilancio descritti sopra.
UN PECCATO ORIGINALE
Ironicamente, tra i vantaggi tradizionalmente attribuiti all’adozione dell’euro, si indica spesso il fatto che governi e privati dovrebbero essere al riparo dai problemi patrimoniali creati da fluttuazioni del cambio, particolarmente acuti come ci insegna l’esperienza delle crisi negli ultimi decenni. Basta vedere quanto è accaduto ai paesi latino americani e in altri mercati emergenti, dove, per una serie di motivi, sia i governi sia le imprese hanno difficoltà a indebitarsi nella propria valuta e quindi emettono titoli denominati in dollari. Nella letteratura economica, la patologia che “costringe” un paese a indebitarsi in valuta va sotto il nome di “peccato originale”. Un paese con il “peccato originale” è vulnerabile a crisi che si traducono in una caduta del cambio: invece di generare occupazione, un cambio debole genera fallimenti e difficoltà nel mercato del credito, che si trasformano in una caduta dell’attività economica.
Per molti anni, i paesi dell’area euro hanno preso a prestito emettendo titoli denominati nella “propria” valuta comune, a tassi bassi e con il beneficio di accedere a un mercato dei capitali europeo grande e liquido. La valuta comune sembrava produrre una difesa automatica dai problemi associati con il “peccato originale”, mettendo i grandi debitori al riparo dai movimenti del cambio. Ci stiamo ora rendendo conto che non è così.
Sfortunatamente, non esistono soluzioni semplici. Nei paesi che ora sono costretti a misure draconiane di correzione fiscale, una “svalutazione interna” avverrà anche senza misure politiche mirate, poiché il consolidamento fiscale avrà effetti deflativi sui prezzi: l’inflazione in questi paesi non solo sarà certamente più bassa rispetto alla media europea, ma sarà probabilmente negativa.
Qualunque sia la modalità di svalutazione interna, i problemi patrimoniali per i governi altamente indebitati, ma anche per famiglie e imprese, aumentano il rischio di strategie politiche che mettano l’intero fardello dell’aggiustamento macro e fiscale sulle spalle dei paesi deboli. Sarà difficile uscire dalla crisi senza una qualche forma di azione coordinata, che ad esempio subordini la svalutazione interna alla ristrutturazione del debito (il piano B su cui insiste Nouriel Roubini), o crei le premesse per un aumento della domanda (soprattutto di investimento) nei paesi in surplus. Entrambe le soluzioni sono politicamente spinose – la seconda perché si tratta del surplus commerciale tedesco. Ma un grande surplus commerciale corrisponde per definizione a uno squilibrio dell’investimento interno (troppo basso) rispetto al risparmio. Una ripresa dell’investimento e della spesa nell’area euro rimane una prospettiva di grande razionalità, non solo per l’Europa nel suo complesso, ma anche per i paesi forti. Rimane aperto il problema di come renderla possibile, in una situazione di logoramento fiscale diffuso dopo ventiquattro mesi di crisi e parecchie ombre sui segnali di ripresa.

Fonte: http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001705.html