Il reddito “condonato” finisce nelle tasche del socio inerte

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La Suprema corte conferma il principio della non estendibilità degli effetti della procedura definitoria
La definizione mediante condono del reddito accertato a carico di una società di persone – pur non giovando automaticamente al singolo socio – comporta l’imputazione in capo allo stesso, in applicazione dell’articolo 5 del Tuir, della quota parte del reddito definito nei confronti della società a seguito della richiesta di condono.
Questi i due principi contenuti nella sentenza n. 12214 del 19 maggio 2010, con la quale la sezione tributaria della Corte di cassazione ha dato continuità a un orientamento che oramai deve ritenersi ampiamente consolidato (cfr sentenze 17731/2006, 8597/2006, 17580/2003, 10149/2002).
La vicenda nasce dall’impugnazione innanzi ai giudici di legittimità, da parte dell’Amministrazione finanziaria, della sentenza di una Ctr che aveva ritenuto inammissibile – erroneamente, secondo la ricorrente Amministrazione – l’accertamento emesso nei confronti di un socio di una società di persone, in quanto fondato sul reddito della società, per il quale quest’ultima aveva presentato, con esito positivo, richiesta di condono.
La Corte accoglie il ricorso, sulla base delle considerazioni che seguono.
Com’è noto, l’articolo 5, comma 1, del Tuir dispone che “I redditi delle società semplici, in nome collettivo e in accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato sono imputati a ciascun socio, indipendentemente dalla percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili”; pur tuttavia, la società di persone ha una propria soggettività tributaria autonoma, al pari dei singoli soci che, in astratto, sono legittimatati a contestare il reddito di partecipazione ricostruito dal Fisco sulla base degli atti impositivi emessi nei confronti della società stessa.
Ciò significa che, in linea generale (e quindi anche in materia di condono), la posizione tributaria del singolo socio è autonoma e indipendente rispetto a quella della società, anche se con essa strettamente collegata, con la conseguenza che “…il condono effettuato dalla società non giova ai soci, i quali ove intendano avvalersi del beneficio debbono presentare autonoma istanza, e nei cui confronti l’Amministrazione conserva il potere-dovere di effettuare accertamenti (Cass. n. 7660/2006; n. 757/2002; n. 4281/2001)…” (Cassazione, sentenza n. 17731 del 4 agosto 2006).
In buona sostanza, argomenta la Cassazione, nel caso di specie i giudici di merito – operando in maniera errata – hanno esteso anche al socio il condono effettuato dalla sola società e, per l’effetto, hanno ritenuto illegittimo l’accertamento poi scaturito in capo allo stesso socio, sulla base delle risultanze reddituali accertate in capo alla società (attraverso l’adesione di quest’ultima al condono).
Infine, concludono i giudici di legittimità, se non è possibile estendere automaticamente gli effetti del condono operato soltanto dalla società di persone anche ai singoli soci, è, di contro, legittimo che il reddito del socio possa essere determinato sulla base dell’imponibile preso a base dall’ufficio per l’ammissione al condono della società stessa. Ciò nella considerazione della correlazione logica, giuridica ed economica esistente tra il reddito sociale e quello, da partecipazione, dei singoli soci e, quindi, della necessità che la determinazione di quest’ultimo venga sempre effettuata tenendo conto dell’imponibile accertato e definito nei confronti della società stessa.
Marco Denaro
Fonte: http://www.nuovofiscooggi.it/dati-e-statistiche/articolo/il-reddito-condonato-finiscenelle-tasche-del-socio-inerte