C’è un futuro per la Fiat in Italia?

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Il 21 aprile la Fiat annuncia il progetto Fabbrica Italia, che prevede la separazione societaria delle attività automobilistiche dal resto del gruppo e un investimento di 20 miliardi di euro in Italia per ribadire il radicamento italiano di un’impresa che si sta trasformando sempre di più in una multinazionale. Il primo passo riguarda lo stabilimento di Pomigliano d’Arco, dove la Fiat prevede di spostare dalla Polonia la produzione della Panda. A fronte di un investimento di 700 milioni, l’azienda chiede la firma di un contratto duro, per garantire governabilità dello stabilimento e saturazione degli impianti. Tutti i sindacati firmano con esclusione della Fiom, che accusa l’azienda di violare il contratto nazionale e la Costituzione. Il referendum fra i lavoratori conferma l’accordo con una maggioranza del 62%, molto al di sotto del “plebiscito” sperato dai firmatari. La Fiom è oggettivamente la vincitrice di questo round. La reazione della Fiat è composita. Da una parte, conferma l’investimento su Pomigliano e l’accordo “con chi ci sta”, per non rompere l’asse con i sindacati firmatari. Dall’altra, prende provvedimenti che accrescono il livello dello scontro: licenzia cinque lavoratori accusati di ostruzionismo o assenteismo, non concede il premio di produzione, delibera lo scorporo e, il segnale più forte di tutti, annuncia che la “L0”, che sostituirà alcuni modelli attualmente prodotti a Mirafiori, verrà prodotta in Serbia. Da ultimo, le voci di costituzione di una newco, cioè di una nuova società svincolata da obblighi di contratto nazionale che imporrà ai singoli lavoratori di Pomigliano la firma del nuovo contratto.

LE RAGIONI DIETRO L’ACUIRSI DELLO SCONTRO

La situazione ha preso una piega molto brutta. Le posizioni di Fiat e Fiom diventano sempre più inconciliabili, come riconosciuto anche da Epifani. È fondamentale capire perché si è arrivati a questo punto per trovare vie di uscita.
Una possibilità, avanzata da diversi commentatori, è che in realtà la Fiat avesse già deciso il ridimensionamento della produzione in Italia. Tutti i fatti sopra riportati sarebbero solo una brutta commedia per poter tagliare le produzione addossando a qualcun altro la responsabilità. Se questo fosse il caso, sarebbe utile che Fiat lo dicesse apertamente, come argomentato da Carlo Scarpa su questo sito. LINK
Esiste una seconda interpretazione. Il piano Fabbrica Italia funziona solo se gli impianti italiani raggiungono alti livelli di produttività. Il sistema produttivo che la Fiat intende applicare su larga scala (il world class manufacturing) richiede l’utilizzo a ciclo continuo degli impianti, il consenso da parte della forza lavoro, le certezze sulla gestione dei rapporti sindacali. In quest’ottica, non basta che aderisca la maggioranza dei sindacati: serve un accordo che impegni tutti i lavoratori. Qualunque sindacato, quindi, ha di fatto diritto di veto sugli accordi. Quello della Fiom è rafforzato dal fatto che la sua posizione è minoritaria ma non marginale fra i lavoratori, come dimostrato dal referendum di Pomigliano. Secondo questa interpretazione, il management Fiat ha sbagliato le proprie valutazioni, in quanto si aspettava una accoglienza positiva unanime al progetto di rilancio di Pomigliano. La netta opposizione della Fiom ha colto di sorpresa l’azienda. A questo punto, tutto il progetto Fabbrica Italia è stato messo in discussione, data l’incertezza sulla gestione dei rapporti industriali.
L’escalation di scelte provocatorie da parte della Fiat mira a rompere questa incertezza. Marchionne lo ha detto esplicitamente. Ma, da esperto di contrattazione, sa bene che solo gesti che segnalino chiaramente la posta in gioco possono provocare una reazione. Questo è particolarmente vero in Italia, dove solo le emergenze sono in grado di sollecitare risposte forti. Il manager vuole sapere se le condizioni di gestione delle fabbriche che lui ritiene necessarie per il rilancio dei siti produttivi italiani siano assicurabili oppure no. Le sue scelte puntano a risolvere al più presto l’incertezza, costringendo la controparte a scelte chiare: sì o no, e l’azienda deciderà di conseguenza. Il “ni” non basta.
È difficile prevedere gli esiti dello scontro. L’accelerazione imposta da Marchionne stride con i tempi della politica italiana, abituata a rinviare in eterno la risoluzione dei nodi strutturali che frenano lo sviluppo del paese. Come in ogni trattativa, l’elemento fondamentale è l’alternativa in caso di rottura. Per la Fiat, il radicamento produttio in Italia è ancora forte. Tuttavia, un ridimensionamento sostanziale della capacità produttiva è alla portata, come la scelta serba vuole segnalare. Per i lavoratori, esistono poche alternative. Un ridimensionamento della Fiat avrebbe conseguenze nefaste su un sistema industriale già provato da 15 anni di crescita asfittica e con una presenza ai minimi termini di grandi imprese. In questi termini, è chiaro chi ha più da perdere da una rottura. Non sembra pensarla così la Fiom, che, del tutto legittimamente, antepone questioni di principio alla possibile chiusura degli stabilimenti. Il problema è che la sua scelta di intransigenza coinvolge tutti i lavoratori, anche quelli che la pensano diversamente, a causa del diritto implicito di veto discusso sopra.

ESISTONO VIE D’USCITA?

L’atteggiamento intransigente assunto dall’azienda dopo Pomigliano, che si contrappone a quello altrettanto rigido della Fiom, ha condotto la trattativa in un vicolo cieco. Vale la pena percorrere tutte le strade per riaprire il dialogo. Il ministro Sacconi sembra iniziare a capire che presiedere il “Ministero per la Divisione Sindacale e l’Isolamento della Cgil” non è il modo migliore per accompagnare questa difficile partita. Purtroppo, è improbabile che la riapertura tavoli negoziali possa sbloccare la situazione se non si ha qualcosa da proporre. A parole, Sacconi ha colto il punto di quello che il governo deve fare: predisporre le infrastrutture materiali e immateriali per poter fare impresa in modo efficiente. In questo caso, l’aspetto più urgente è la riforma del sistema di rappresentanza. La globalizzazione impone tempi di reazione molto brevi da parte delle imprese. Come sostenuto da Tito Boeri e Pietro Ichino, un sistema in cui l’impresa deve trattare con cinque o dieci sindacali sigle non può garantire efficienza e celerità. L’ipotesi della “newco” a Pomigliano costituisce una riforma di fatto del sistema di relazioni industriali. Un “rompete le righe” non regolamentato sarebbe di dubbia legittimità giuridica, e quindi soggetto alla possibilità di infiniti ricorsi. Potrebbe inoltre innescare una stagione di conflittualità sociale. Meglio una riforma condivisa da fare in tempi brevissimi in Parlamento, che garantisca forza ai rappresentati sindacali per trattative anche dure, ma rompa il diritto di veto di ogni sigla.

CONCLUSIONI

All’inizio dell’anno scrissi su questo sito che la vicenda Fiat avrebbe rappresentato una cartina di tornasole della capacità del paese di mantenere sul territorio italiano il quartier generale, e una parte sostanziale della produzione, di una multinazionale nata e cresciuta in Italia. La valutazione degli eventi degli ultimi sei mesi fa temere il peggio. Le scelte di rottura dell’azienda aumentano la posta in gioco, diminuendo lo spazio di manovra e accorciando i tempi entro i quali si possa trovare un accordo per far partire Fabbrica Italia. L’inconcludenza della politica e le divisioni sindacali rendono altamente improbabili le risposte necessarie per una soluzione positiva per il Paese. A questo punto, il disimpegno progressivo di Fiat dall’Italia è un’ipotesi concreta. L’ottimismo di maniera non riuscirà a mantenere i posti di lavoro. Servono azioni immediate e decise.

Fonte: http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001847.html