Gli assegni fuori contabilità sono prove per l’accertamento

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Così la Corte di legittimità, che bacchetta la Ctr per aver sentenziato con motivazione scarna e insufficiente
Con ordinanza n. 18809 del 20 agosto, la Corte di cassazione ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate che aveva notificato un avviso di rettifica Iva a una società per avere ricevuto assegni, emessi a proprio favore da un’altra impresa individuale, rinvenuti durante una verifica fiscale presso quest’ultima, ma non contabilizzati. Sostanzialmente, quindi, i movimenti bancari che non risultano dalle scritture aziendali sono elementi idonei a far scattare l’accertamento per possibile evasione fiscale.

Il fatto
Una società impugnava un avviso di rettifica parziale Iva basato sul reperimento, nell’ambito di un controllo a carico di un’altra impresa, di sei assegni bancari emessi dalla seconda a favore della prima e ritenuti connessi a rapporti commerciali intercorsi tra i due operatori senza essere contabilizzati né altrimenti giustificati in sede amministrativa. Da qui la presunzione di operazioni economiche eseguire “in nero”.
La Commissione tributaria provinciale adita accoglieva il ricorso della società asserendo che le risultanze processuali avrebbero evidenziato che gli assegni si riferivano a un’operazione finanziaria tra i legali rappresentanti delle imprese in merito a “rapporti personali”. La Commissione regionale confermava l’assunto, argomentando che i rilievi prospettati in appello dall’ufficio non avrebbero “una valenza idonea a modificare quanto correttamente ritenuto dai giudici di prime cure”. Tali conclusioni in ragione del fatto che la società appellata non solo avrebbe offerto scritture contabili regolarmente tenute, ma avrebbe anche dato la prova documentale, di data certa, che le operazioni dedotte dagli assegni rinvenuti presso la ditta individuale verificata non potevano essere attribuite a un rapporto commerciale. “Stante tale situazione – si legge nella motivazione – la presunzione attribuita dall’Ufficio a tali assegni si svuota di ogni consistenza e, quindi, non assume alcuna valenza idonea a dare consistenza all’impugnato avviso di rettifica”.

L’Amministrazione finanziaria propone ricorso per cassazione denunciando violazione del principio di autosufficienza della decisione impugnata su un fatto non controverso, atteso che:

1. la motivazione della decisione del riesame è del tutto insufficiente e inidonea a giustificare le affermazioni di estraneità delle transazioni sottese dagli assegni bancari all’attività imponibile Iva, in quanto la Commissione regionale non specifica quale sia la documentazione ritenuta rilevante a titolo di controprova, né precisa l’iter valutativo seguito che abbia consentito al giudice di ritenere superata la presunzione relativa a cessioni soggette a Iva, come contestata nell’atto impositivo
2. non risulta indicato quale fosse il diverso rapporto di natura personale che la “fantomatica” prova documentale attesterebbe essere intercorso tra le due aziende.

Considerato che l’ente impositore ha notificato al contribuente un avviso di rettifica (di importo complessivo pari a quello recato dagli assegni in questione) ai sensi dell’articolo 54 del Dpr 633/1972, presupponendo, pertanto, l’esistenza di presunzioni gravi, precise e concordanti, appare necessario in sede di legittimità verificare se il giudice precedente ha motivato, adeguatamente, sulla validità delle presunzioni sottese dall’ufficio e sulla possibilità di ricondurre le somme indicate sugli assegni all’ipotesi di acquisti e vendite senza fattura.

La decisione della Cassazione
La Corte suprema ritiene il ricorso meritevole di accoglimento, in considerazione che il riscontro di movimentazioni sui conti correnti bancari non annotati in contabilità costituisce, di per sé, idoneo elemento presuntivo ai fini dell’accertamento, come del resto previsto dall’articolo 54, comma 3, del Dpr 633/1972. La norma, infatti, abilita l’ufficio a procedere alla rettifica indipendentemente dalla previa ispezione della contabilità del contribuente, qualora l’esistenza di operazioni imponibili per ammontare superiore a quello indicato nella dichiarazione, o l’inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che danno diritto alla detrazione, risulti in modo certo e diretto, e non in via presuntiva, da verbali, questionari e fatture (articolo 51, comma 2), dagli elenchi allegati alle dichiarazioni di altri contribuenti o da verbali relativi a ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti, nonché da altri atti e documenti in suo possesso.

Per la Corte regolatrice, quindi, le conclusioni cui è giunta la Ctr non sono supportate da prove idonee a sconfessare il contrario assunto (ex articolo 2697, comma 2, codice civile) ma semplicemente assistite da un rinvio “meramente adesivo ed acritico” alla motivazione di primo grado, pertanto insufficiente a fondare la valenza di un giudicato immune da vizi logici e giuridici. Ciò in quanto non può assolutamente essere messa in discussione la circostanza che la movimentazione su conti correnti bancari, che non risulti in contabilità, è un elemento di per sé idoneo a sostenere il conseguente atto di accertamento.
Nel caso in esame, gli assegni furono girati dal percipiente non a nome proprio, ma quale legale rappresentante dell’impresa che conduceva. In tal senso si è espressa uniformemente la giurisprudenza di legittimità (cfr Cassazione, sentenze nn. 11750/2008, 138189/2007, 18851/2003, 6232/2003, 8422/2002, 10662/2001 e 9946/2000), evidenziando peraltro come i movimenti dei conti correnti bancari, non transitati nelle scritture contabili dell’imprenditore, costituiscono prova legale relativa (in quanto è ammessa prova contraria) a favore dell’Amministrazione finanziaria. Il contribuente può provare la non riferibilità delle operazioni all’attività di impresa, sia nella fase anteriore all’emissione dell’avviso di accertamento, sia in quella successiva per l’annullamento in via di autotutela, sia nella fase contenziosa.

Inoltre, la Suprema corte ha sancito che, in tema di Iva, qualora debba riconoscersi, ai sensi dell’articolo 51, comma 2, del Dpr 633/1972, la ricorrenza dei presupposti per il ricorso a presunzioni semplici basate su operazioni in conto corrente bancario, la prova liberatoria, che il meccanismo comune a ogni presunzione sposta sul contribuente, si commisura necessariamente alla natura e consistenza degli elementi utilizzati dall’Amministrazione. La valutazione di tali elementi non si traduce in un’automatica assimilazione delle operazioni in conto corrente a corrispettivi non dichiarati, ma richiede un apprezzamento, eminentemente fattuale, della forza presuntiva attribuibile a quelle operazioni, alla luce della prova liberatoria offerta dal contribuente, ed è quindi censurabile in sede di legittimità soltanto per i vizi motivazionali previsti dall’articolo 360, n. 5), c.p.c. (cfr Cassazione, sentenze nn. 19947/2005 e 11778/2001).

In particolare, tale laconicità non permette di comprendere se, nella specie, si sia osservato il principio stabilito in materia di imposte sui redditi, ma suscettibile di estensione anche al campo Iva, per la generale coincidenza fra i due regimi di imponibilità, secondo il quale, in tema di rettifica della dichiarazione del contribuente per redditi d’impresa, occorre distinguere le irregolarità della contabilità meno gravi e quelle munite dei requisiti di cui all’articolo 2729 c.c. (gravità, precisione e concordanza). Nel primo caso, l’Amministrazione può procedere a rettifica analitica, utilizzando gli stessi dati forniti dal contribuente; nel secondo dimostrando, anche per presunzioni, l’inesattezza/incompletezza di una o più poste emergenti dalle scritture che evidenziano un’inattendibilità globale, autorizzando l’Amministrazione a prescindere da esse e a procedere in via induttiva, avvalendosi anche di semplici indizi sforniti dei requisiti necessari per costituire prova presuntiva. Naturalmente, in entrambi i casi, l’atto di accertamento deve essere motivato, sia con riferimento ai presupposti che consentono il ricorso al metodo analitico o a quello induttivo, sia alle ragioni che giustificano il calcolo in rettifica, tenendo però presente che la motivazione su detti presupposti può emergere implicitamente, specie nel caso di rettifica analitica, laddove la singola ripresa può di per sé evidenziare l’inesattezza della contabilità che giustifica la rettifica stessa (Cassazione, sentenza n. 24580/2005).

Peraltro, la giurisprudenza di legittimità ha consolidato il principio in base al quale anche una contabilità regolarmente tenuta non preclude l’accesso alla possibilità per l’Amministrazione fiscale di disattenderla producendo legittimi atti impositivi, laddove gli elementi, i dati e le notizie in possesso dell’ufficio assumano rango di materiale indiziario, sufficiente per fondare presunzioni munite dei caratteri di gravità, precisione e concordanza suscettibili di inficiare l’attendibilità formale delle scritture contabili (cfr Cassazione, sentenze nn. 7813/2010, 7184/2009, 4594/2009, 18421/2005 e 8422/2002).

L’insufficiente motivazione
Da qui il drastico rigore impresso dal Collegio di legittimità nei riguardi dell’“irragionevole” motivazione della sentenza impugnata, che non ha adeguatamente “giustificato” il superamento della presunzione operata dall’ufficio, come prescrive la norma civilistica.
Di conseguenza, sulla scorta dei rilievi, anche se sintetici, esposti nella motivazione dell’ordinanza n. 18809/2010, ad avviso della Suprema corte le conclusioni dei giudici di appello si rivelano infruttuose, in quanto espresse senza un minimo supporto argomentativo effettivamente relazionato a una specifica e concreta emergenza probatoria, ma semplicemente assistite da un mero rinvio adesivo e acritico, perciò inidoneo, alla motivazione della decisione di prime cure.

Costituisce, infatti, principio del tutto pacifico nella prassi giurisprudenziale che la motivazione per relationem della sentenza pronunciata in sede di gravame è legittima purché il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del giudice precedente, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronunzia, in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo che il percorso argomentativo, desumibile attraverso la parte motiva delle due sentenze, risulti appagante e corretto. Viceversa, deve essere cassata la sentenza d’appello, quando la laconicità della motivazione adottata, formulata in termini di mera adesione, non consenta in alcun modo di ritenere che all’affermazione di condivisione del giudizio di primo grado il giudice di appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi del gravame.
Nel caso di specie, il giudice del riesame si è limitato ad affermare che la ricostruzione effettuata al riguardo dal primo giudice risulta senza alcun dubbio corretta in quanto fondata sulle risultanze probatorie emergenti dagli atti del processo. La Ctr, invece, avrebbe dovuto esporre estesamente le ragioni per le quali era da condividere la valutazione del primo giudizio; per l’ipotesi in cui determinati argomenti fossero stati introdotti solo con l’appello, di essi avrebbe dovuto valutare la specifica rilevanza in autonoma motivazione.
La ragioni argomentative della sentenza opposta sono, quindi, del tutto incomprensibili e non adducono alcun fondamento alla motivazione contenuta nella sentenza della prima Commissione, che la Suprema corte – peraltro – non ha il potere di esaminare.

Al riguardo vige, infatti, il consolidato principio di diritto in base al quale ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il giudice di merito omette di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indica tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (Cassazione, sentenze nn. 1756/2006 e 890/2006).

D’altra parte, il convincimento del giudicante, circa l’inidoneità della documentazione prodotta a soddisfare l’onere di prova – gravante sul contribuente per effetto della presunzione legale ricavabile dalla situazione bancaria – dipende dalla valutazione del materiale probatorio, ossia da un giudizio di fatto riservato alla competenza del giudice di merito, non sindacabile in cassazione se non per vizi logici della motivazione, riscontrabili attraverso la trascrizione nel ricorso dei documenti idonei a porli in evidenza; simili vizi, lungi dall’essere dimostrati, con questo motivo di censura non sono affatto dedotti (Cassazione, sentenza n. 11750/2008).

In conclusione, per quanto esposto, non offrendo la motivazione della sentenza impugnata alcuna possibilità di rintracciare e controllare la ratio decidendi, la decisione rivela effettivamente il denunciato vizio di motivazione, al quale dovrà ora porre rimedio il giudice del rinvio.

Salvatore Servidio
Fonte: Fisco Oggi