Morte del lavoratore: responsabilità del datore se esposizione amianto ha effetto acceleratore

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La quarta sezione penale della corte di Cassazione, con la sentenza n. 43786/2010, interviene in merito ad un caso di malattia lavorativa determinata dall’esposizione all’amianto. Nello specifico, il caso è relativo alla morte di un lavoratore deceduto nel 2003 per mesotelioma pleurico dopo aver lavorato presso un’azienda ove veniva esposto a polveri di amianto. Le Corti di merito affermavano la responsabilità penale della direzione aziendale configurando il reato di omicidio colposo, e avverso tali decisioni veniva proposto ricorso in Cassazione. La Corte – sottolineando che il giudice di legittimità non è giudice del sapere scientifico, non detiene proprie conoscenze privilegiate ed è chiamato soltanto a valutare la correttezza metodologica dell’approccio del giudice di merito al sapere tecnico-scientifico, approccio che riguarda la preliminare indispensabile verifica critica in ordine all’affidabilità delle informazioni che utilizza ai fini della spiegazione del fatto – afferma la complessità esistente nello stabilire, nelle malattie neoplastiche, in quale momento sia avvenuto l’avvio del processo che, talvolta dopo una lunghissima latenza, conduce alla formazione della prima cellula tumorale e quindi all’evento lesivo. Rilevante è, secondo i giudici di legittimità, accertare se la patologia che ha colpito il lavoratore abbia effettivamente la sua causa nell’esposizione lavorativa o se, invece, siano concretamente ipotizzabili altre ipotesi causali che riconducano l’evento lesivo a distinti fattori eziologici o ad esposizioni extralavorative. Gli Ermellini affermano che “si è in presenza di un comportamento soggettivamente rimproverabile a titolo di colpa quando l’attuazione delle cautele esistenti all’epoca dei fatti avrebbero significativamente abbattuto la probabilità di contrarre la malattia. Tale conclusiva valutazione in fatto si rinviene nelle pronunzie di merito, nelle quali da un canto si mette in luce l’intensità dell’esposizione all’agente patogeno; e dall’altro si rimarca la totale assenza di misure di prevenzione, alcune molto semplici e di rilievo anche intuitivo, che avrebbero potuto diminuire drasticamente l’entità delle fibre disperse nell’ambiente di lavoro e quindi fortemente ridurre la probabilità di contrarre la malattia: si parla di apparati di aspirazione, di maschere individuali, ma anche di maggiore cautela nella movimentazione delle polveri magari semplicemente bagnandole.” Per tali ragioni la Corte annulla la sentenza d’appello, con rinvio per una nuova valutazione in ordine al nesso di causalità.

Studio Cataldi