Ora anche chi subisce il ricatto del “lavoro nero”, ossia l’incolpevole lavoratore, dovrà comunque pagare le imposte non versate dal datore di lavoro e quindi dichiarare quanto percepito.
Forse si è trovato un nuovo modo per far emergere il lavoro nero, o un invito ai lavoratori a denunciarlo? Non crediamo data l’estensione del fenomeno, una vera e propria piaga in particolare nel Mezzogiorno, ma diffuso in ogni ambito lavorativo del Paese e di difficile soluzione se non si adotteranno con urgenza misure strutturali in materia di occupazione. Così Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti”, commentando la sentenza n. 9867/2011 della Corte di Cassazione.
Secondo la sezione tributaria della Suprema Corte, infatti, con la decisione in questione, il lavoratore che percepisce lo stipendio in nero, ha l’onere comunque di dichiarare al fisco il reddito ricevuto, e quindi il comportamento illegittimo del datore di lavoro/sostituto d’imposta non assorbe e annulla gli obblighi del lavoratore.
Il caso di cui si occupa la cassazione era stato avviato a seguito di un avviso di accertamento Irpef dell’Agenzia delle Entrate, attraverso la quale l’ente statale aveva richiesto il pagamento delle tasse relative ai redditi erogati e non dichiarati da una società. In particolare, gli stipendi in nero erano stati provati a seguito del reperimento in occasione di una verifica fiscale nei confronti della società datrice di lavoro delle ricevute rilasciate dal lavoratore.
Le commissioni tributarie provinciali e regionali avevano accolto i ricorsi del contribuente – lavoratore, che si era opposto al prelievo, poiché non risultava un accordo per non dichiarare il reddito ed in virtù della manifesta buona fede con cui aveva agito il contribuente ritenendo di non dover presentare la dichiarazione per redditi derivanti dall’unico rapporto di lavoro.
I giudici del Palazzaccio, al contrario, hanno accolto la linea difensiva dell’Agenzia della Entrate, secondo cui in presenza di pagamenti in nero, sussiste comunque l’obbligo del lavoratore di dichiarare al fisco i pagamenti.
Uniformandosi all’orientamento generale di legittimità, gli ermellini hanno ritenuto comunque che in caso di mancato versamento della ritenuta d’acconto da parte del datore di lavoro, il soggetto obbligato al pagamento del tributo è comunque anche il lavoratore contribuente ed hanno espresso il principio secondo cui “in presenza dell’obbligo di effettuare la ritenuta di acconto (diretta in sé ad agevolare non solo la riscossione, ma anche l’accertamento degli obblighi del percettore del reddito), l’intervento del “sostituto” lascia inalterata la posizione del “sostituito”, il quale è specificamente gravato dall’obbligo di dichiarare i redditi assoggettati a ritenuta, poiché essi concorrono a formare la base imponibile sulla quale, secondo il criterio di progressività, sarà calcolata l’imposta dovuta, detraendosi da essa la ritenuta subita come anticipazione di prelievo”.