E’ un’Italia depressa, raggomitolata su stessa, priva di energia quella che fuoriesce dal rapporto annuale dell’Istat recentemente diffuso. Un’Italia stanca, spenta, in progressivo invecchiamento, in tendenziale declino. Pesano la mancanza di lavoro, la carenza di produttività, le inefficienze della pubblica amministrazione. Gli italiani hanno meno soldi in tasca, risparmiano di meno, non riescono a dare un impiego decente ai propri figli.
Si tratta di un dato tipico di un’economia in declino, surclassata da altre nazioni, più giovani, più rampanti, più energiche. Basti pensare che l’Indonesia (oltre 200 milioni di persone) cresce da anni ad un tasso del 6% e la sua popolazione in maggioranza ha meno di 30 anni. Cosa fare allora? Rassegnarsi ad un inevitabile ridimensionamento, con livelli di vita molto più bassi degli attuali (come sta avvenendo ad esempio in Grecia) o cercare qualche soluzione che ridia competitività alla nostra nazione?
Il problema è complesso ma è ovvio che qualche percorso va comunque ipotizzato. Il punto ragionevole da cui partire è quello che l’Italia comunque è una società assai ricca, con un patrimonio importante e con grandi capacità di saper fare e di saper produrre. L’attuale situazione è determinata dalla crescita esponenziale, voluta da intere classi dirigenti, della spesa pubblica e del debito pubblico e con il contestuale, insopportabile aumento di pressione fiscale.
A questa crescita del debito pubblico (cui fa da contraltare un patrimonio pubblico largamente superiore, ma di questo non parla nessuno) non è corrisposto un incremento dell’efficienza dell’azione pubblica, né un significativo incremento della ricchezza pubblica. In pratica questi soldi, negli anni, sono stati sprecati perché abbiamo una pubblica amministrazione che non funziona e come contraltare un peso delle tasse insopportabile. Questo ha portato anche ad una profonda distorsione culturale degli italiani. Chi ha potuto (autonomi e piccoli imprenditori) ha cercato di sfuggire alla trappola fiscale, pur continuando ad usufruire dei servizi pubblici collettivi (che pur ci sono, la sanità italiana è oro rispetto a quella americana).
Invocando l’ingiustizia del sistema si è alimentato il solito vizio italiano della fuga dalla responsabilità, con eserciti di piccoli evasori autointitolatisi vittime del sistema. Dall’altro lato l’esteso e costosissimo apparato pubblico ha continuato nei suoi sprechi, improtando la pubblica amministrazione e la stessa politica, che della pubblica amministrazione è comunque il vertice, ad una cultura del lassismo, del menefreghismo e anche qui della fuga dalla responsabilità. Peggio.
Quando lo Stato ha cercato di recuperare risorse attraverso gli strumenti coercitivi lo ha fatto con le sue metodologie da satrapo mediorientale, ossia con un’azione a sparare nel mucchio del suo agente per la riscossione, Equitalia. Il quale non recupera una lira (o un euro pardon) dai veri evasori ma sfrutta le disattenzioni, la buona fede o la mera ignoranza di una platea oggi sempre più inferociti di poveri cittadini. Con questo non si giustifica certo la violenza su poveri dipendenti incaricati solo di consegnare atti, un atto che va assolutamente condannato, ma la filosofia di Equitalia è una filosofia sbagliata, perché è sbagliata la filosofia della pubblica amministrazione da cui promana. Come diceva Keynes nell’economia la cosa più importante è la fiducia.
Ed è oggi quella che in Italia manca. Non mancano i soldi (anche se non sono distribuiti ottimamente) non mancano le risorse umane e professionali. Manca la fiducia, fiaccata da decenni di fuga dalle responsabilità e di sguazzare nell’arte di arrangiarsi o nella furbizia (ossia soluzionid brevissimo periodo). Ma senza fiducia non ci si risolleva. Come fare? Forse cominciando a parlarne, a fare un po’ di autocritica, ad ammettere che siamo un popolo dalle grandi doti ma dalla grande volontà di rimanere sempre bambino, scansando la fatica di diventare adulti. E cos’ però non solo non si diventa adulti, ma si muore direttamente.
di Pietro Colagiovanni