Il presidente della Provincia di Sassari, Alessandra Giudici, interviene nel dibattito in corso sul tema della riforma della pubblica amministrazione e l’ipotesi di abolizione delle Province
Riceviamo e pubblichiamo
“Il difficile momento che il Paese sta attraversando impone come necessaria una seria riflessione sulle riforme più opportune per rendere lo Stato, sia a livello centrale che di amministrazione periferica, più snello e più efficace. Un sistema di amministrazione pubblica appesantito da una burocrazia farraginosa, elefantiaca e costosissima non è in grado di rispondere alla domanda di innovazione, di semplificazione, di trasparenza e di efficienza che proviene dal Paese stesso. Imprese, lavoratori, famiglie, giovani, anziani: la crisi coinvolge tutti, per superarla c’è bisogno di una riorganizzazione complessiva del sistema amministrativo e burocratico che sappia favorire lo sprigionarsi delle migliori energie, l’utilizzo delle migliori competenze e la valorizzazione delle migliori capacità di cui disponiamo.
Andando oltre questa generica quanto basilare enunciazione di principio, dico anche che è assolutamente normale, oltre che giusto, che in un momento di ristrettezze come quello attuale si punti soprattutto alla riduzione della spesa pubblica e, in particolare, dei costi della politica. Anche l’approccio meno demagogico al tema della riorganizzazione della pubblica amministrazione non può sottrarsi al dovere di denunciare che l’attuale sistema, in cui il potere decisionale si perde in mille rivoli e altrettante sovrapposizioni di competenze, è paralizzato, incapace di quelle risposte rapide e chiare di cui l’economia e la società – tanto più in una fase involutiva come quella che stiamo attraversando – hanno bisogno.
Affermare tutto questo è doveroso, è un atto di onestà cui nessun amministratore pubblico può e deve sottrarsi. Tuttavia, ritengo che sia altrettanto doveroso non soffiare sul fuoco dell’antipolitica e del populismo, individuando in questa o quella istituzione il vero problema, il male da estirpare. Al contrario, è questo ciò che avviene quando si parla delle Province. Ogni volta che si parla di costi della politica si ipotizza l’eliminazione delle Province, come se fossero questi enti – che esistono da quando esiste l’Italia unificata – il vero problema del Paese, il vero spreco, la pietruzza che inceppa l’intero ingranaggio. Per propugnare la teoria secondo cui con la sparizione di questo ente intermedio saremmo tutti salvi, che il sistema funzionerebbe e che la politica non commetterebbe sprechi, non c’è neanche bisogno di ricorrere ad alcun dato, tanto è diffusa ormai la convinzione che il problema stia proprio lì.
La spiegazione, in verità, è abbastanza semplice. Qualsiasi sondaggio condotto negli ultimi trent’anni dice chiaramente che i cittadini percepiscono le Province come qualcosa di distante, al contrario di Comuni, Regioni e Stato. A chiedersi perché si potrebbero individuare molteplici cause. Per esempio, il tipo di competenze e di funzioni che sono proprie di un’amministrazione provinciale rendono meno quotidiano e meno diretto il rapporto con i cittadini, e questo contribuisce a distorcere l’opinione nei confronti di un ente con cui la gran parte delle persone, di fatto, non interagisce. E non ha contribuito al buon nome delle Province il fatto che per anni le competenze fossero abbastanza limitate anche sul piano quantitativo, dando l’impressione che i loro compiti potessero essere tranquillamente assolti dagli altri livelli di governo del territorio. Sul piano culturale, poi, l’eterogeneità geografica, culturale, economica e sociale di una Provincia è tale da rendere molto complicata l’immedesimazione dell’individuo con la comunità provinciale, e da ciò deriva l’impossibilità di identificarsi con l’ente che amministra quella stessa comunità.
L’elenco delle ragioni per cui il cittadino percepisce la Provincia come un’entità astratta e non come un ente è lunghissimo. E, a onor del vero, non si tratta sempre di falsi miti. Dalla sin troppo brusca evoluzione di competenze avvenuta negli ultimi anni – per altro non accompagnata da adeguati trasferimenti di risorse umane, strumentali e finanziarie – all’atipico sistema elettorale per collegi uninominali, si potrebbe discutere all’infinito dei motivi dell’evanescenza cui rischiano di andare incontro le Province. Si potrebbe e si dovrebbe discutere di tutti questi elementi per arrivare a una riforma che ammoderni le amministrazioni provinciali – e non solo – ma cavalcare l’onda della disaffezione che le Province patiscono e auspicarne la cancellazione tout court è demagogico, opportunistico e anacronistico.
Nei giorni scorsi ho sottoscritto, insieme agli altri presidenti di Provincia espressi in tutta Italia dal PD, una lettera rivolta ai vertici nazionali del partito affinché anche in Parlamento la questione sia affrontata con la massima serietà e puntualità, senza utilizzare l’argomento in termini di consenso, con calcoli elettoralistici che farebbero senz’altro propendere per la soluzione più semplicistica e populistica, ossia quella che prevede l’abolizione delle Province.
Invito tutti a una riflessione: è possibile che in un Paese storicamente fondato sul localismo, sull’eterogeneità degli scenari culturali, sociali ed economici, il livello di governo locale sia un problema da eliminare? È comprensibile che la politica, che da almeno vent’anni discute di decentramento e federalismo, per ovviare alle proprie storture e ai suoi costi eccessivi non sappia proporre altro che l’abolizione dell’ente intermedio di governo locale? Ed è pensabile che in un Paese in cui tutto – l’associazionismo, il sindacato, il mondo economico, l’apparato dello stato, la sanità e così via – è organizzato su base provinciale, la politica pensi che sia quello un livello di amministrazione della cosa pubblica facilmente eliminabile?
Vogliamo parlare di costi della politica? Eliminiamo la marea di enti strumentali, agenzie, autorità d’ambito, consorzi, società pubbliche e quant’altro, che rappresentano un costo e si sovrappongono alle funzioni e alle competenze storicamente in capo alle istituzioni di rappresentanza democratica diretta, col solo effetto di favorire l’accentramento del potere decisionale ai livelli regionale e statale, attraverso la nomina di una pletora di presidenti, amministratori unici, amministratori delegati e manager che devono rispondere solo alla politica, e non a chi li ha votati, impedendo di fatto a ciascun territorio di essere protagonista delle scelte che vincolano il proprio futuro. Governo e Regioni procedano a una profonda revisione della loro legislazione per la soppressione di tutte le strutture, gli enti o gli uffici che esercitano funzioni riconducibili alle Province e agli enti locali con forti conseguenze sulla spesa pubblica.
Mi rendo conto che la mia, essendo un presidente di Provincia, possa sembrare una difesa d’ufficio, un atto dovuto. In realtà il ragionamento va capovolto: non difendo le Province perché sono a capo di un’amministrazione provinciale, ma presiedo la Provincia perché ho scelto di accettare questo impegno, riconoscendo il valore – politico e amministrativo – di un ente che deve avere la capacità di intercettare e interpretare i fenomeni economici, sociali e culturali che investono un territorio più vasto del livello comunale ma che non hanno un’ampiezza regionale o nazionale. L’Italia, in tutti i settori, è fatta di Provincia, è fatta di territori, è fatta di localismi che vanno gestiti e governati. La politica non può abdicare a un suo dovere con un’operazione di facciata che lascerebbe sul campo altrettanti costi, sprechi compresi, ma che priverebbe le comunità locali della propria capacità di autodeterminazione e di autogoverno“.