Il nuovo primato, secondo gli esperti che si sono basati sui dati dell’Emissions Database for Global Atmospheric Research (Edgar), dovrebbe far squillare un campanello d’allarme molto forte sugli scenari futuri.
Questa volta di scena è la popolazione cinese. Anche se non è riuscita a raggiungere il livello di benessere di quella occidentale, ha eguagliato uno dei primati meno lusinghieri, quello delle emissioni di CO2 procapite. Come documenta il rapporto annuale del Joint Commission Center della Commissione Europea le emissioni procapite della Cina sono ormai pari a quelle europee, e anche se il record statunitense è ancora lontano l’escalation ha portato a un nuovo record mondiale nella produzione di CO2, che allontana ancora di più gli obiettivi minimi indicati dagli esperti per evitare gli effetti peggiori del global warming.
Secondo il documento si è registrato nel 2011 un aumento delle emissioni, arrivate a 34 miliardi di tonnellate, del 3% rispetto all’anno precedente. Se nei paesi occidentali la crisi economica ha rallentato la produzione del principale gas serra, scesa del 3% nell’Ue e del 2% in Usa e Giappone, l’aumento cinese del 9% ha ampiamente bilanciato il calo. Il paese del Dragone ha ormai stabilmente la fetta maggiore di emissioni nel mondo, con il 29%, seguita da Usa(16%), Ue (11%), India (6%), Russia (5%) e Giappone (4%).
Tra il 2000 e il 2011 sono già state immesse in atmosfera 420 miliardi di tonnellate di anidride carbonica – affermano gli esperti – ma secondo i calcoli l’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura media sotto i 2 gradi sarà possibile solo se tra il 2000 e il 2050 la cifra totale non supererà i 1000-1500 miliardi. A questi ritmi difficilmente verrà centrato.
Con l’aumento dell’ultimo anno la produzione di CO2 procapite cinese ha raggiunto le 7,2 tonnellate, superando paesi come Francia, Italia (poco sopra le 6 tonnellate e con un trend in diminuzione) e Spagna, e avvicinandosi molto alla media Ue che invece è scesa a 7,5.
L’Australia è tra le maggiori responsabili di emissione per via della sua dipendenza dalle centrali elettriche a carbone. Esporta, inoltre, tonnellate di carburante ogni anno in Asia. Con la carbon tax, negli anni a venire 14.100 persone perderebbero il lavoro occupato nel settore.
Giovanni D’Agata, fondatore dello “Sportello dei Diritti”, ritiene utile ribadire queste tragiche cifre per riportare l’attenzione su un fenomeno che secondo i dati disponibili, altera la temperatura dei mari. Con l’ascesa del grado di calore marino, le calotte si sciolgono, e aumenta il livello del mare erodendo le coste terrestri. In Italia, stando ai dati pubblicati dall’Enea, 1.384 km verranno consumati dal mare in questi anni. Altra conseguenza è l’aumento considerevole delle piogge acidificate dalla sempre colpevole anidride carbonica. Le specie animali che non sono repentinamente in grado di adattarsi ai cambiamenti climatici sono a rischio, il 20 per cento delle specie, sarebbe, infatti a rischio.
Per evitare la catastrofe, i paesi industrializzati dovrebbero ridurre di almeno il 40% le emissioni di CO2, entro il 2020, azione che sembrano restii a compiere. Ma quanti sono disposti a far meno soldi per salvare il pianeta nel quale vivono?