Avances tra colleghi, frasi scurrili e palpeggiamenti. La sentenza della Cassazione

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Non sempre i rapporti tra colleghi sono “rose e fiori” spesso il vivere a stretto contatto porta a lasciarsi andare, in qualche occasione troppa confidenza e leggerezza potrebbero non essere gradite , in questi casi, basta poco per giungere in Tribunale e beccarsi una condanna. La questione trattata nei giorni scorsi dalla Corte di Cassazione verteva proprio sul difficile rapporto tra colleghi e, nello specifico, un caso in cui una impiegata è stata costretta a subire contro la propria volontà un atto sessuale e inoltre per averne leso l’onore e il decoro, pronunciando nei suoi confronti una frase ingiuriosa. La Cassazione ha concluso condannando il ricorrente per il“toccamento” ma lo ha assolto per la frase scurrile pronunciata.
Si legge in sentenza, “la Corte di merito ha disatteso la doglianza difensiva in ordine alla mancanza, nella frase pronunciata, di illiceità alcuna affermando che la portata ingiuriosa della stessa sarebbe indiscutibile “dal momento che proprio la stessa ha integrato il primo approccio di carattere sessuale verso la parte offesa”. Tale conclusione appare tuttavia fondata sull”illogico presupposto per cui il solo fatto dei collegamento all’approccio sessuale, successivamente posto in essere dall’imputato, avrebbe dovuto conferire alla frase una valenza di per sé necessariamente ingiuriosa; al contrario la Corte, senza arrestarsi a considerare il solo aspetto dei reato sessuale, quasi facendolo coincidere con quello della lesione verbale dell’altrui onore, avrebbe dovuto anzitutto analizzare il contenuto oggettivo della frase e verificare se esso, per le parole pronunciate, esprimesse appunto, come necessario per l’integrazione del reato, offesa dell’altrui onore e decoro.
Sennonché, così facendo, e pur essendo indubbia la terminologia volgare e ineducata delle specifiche parole ricomprese nella frase contestata, e su cui si è evidentemente appuntata l’attenzione dei giudici atteso appunto il termine usato (“…Giuseppì…stasera ho un cazzo…”), avrebbe dovuto concludersi, stante l’inequivoco riferimento dell’imputato non già alla interlocutrice, bensì a se stesso, per l’assenza di offesa alla dignità altrui e, dunque, per la non integrazione del reato contestato“.
Corte di Cassazione III Sezione Penale
Sentenza– 16 ottobre 2014, n. 43314

Alfredo Magnifico

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