Giro di vite per le aziende che installano per monitorare i dipendenti anche una videocamera senza però avvisare e prendere accordo coi sindacati, consumando così un reato. Lo ha stabilito oggi martedì la terza sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 51897/16. Il caso nasce perché la titolare di una pompa di benzina aveva fatto installare alcune videocamere per controllare una dipendente. Al termine di un controllo amministrativo, gli agenti verificavano che le telecamere erano state installate senza rispettare riservatezza e dignità del lavoratore in violazione della legge. Nello specifico l’installazione avveniva senza l’accordo con i sindacati e in mancanza di un provvedimento della direzione territoriale del lavoro, facendo sussistere così il reato previsto dagli articoli 4 e 38 dello statuto dei lavoratori. Pertanto gli agenti procedevano alla contestazione dell’illecito. Il legale rappresentante dell’attività chiariva che la videocamera aveva un’esclusiva funzione di sicurezza, non concretizzandosi alcuna violazione della privacy ai danni della dipendente. Ma il tribunale non arrivava alla stessa conclusione condannandola.
Contraria alla decisione, l’imputata decideva di presentare ricorso in cassazione con esito negativo. L’articolo 23 del decreto legislativo 151/15, attuativo di una delle deleghe contenute nel Jobs Act, ha modificato l’articolo 4 della legge 300/70 «rimodulando la fattispecie che prevede il divieto dei controlli a distanza, nella consapevolezza di dover tener conto, nell’attuale contesto produttivo, oltre degli impianti audiovisivi, anche degli altri strumenti dai quali derivi la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori e di quelli utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa». Secondo la norma citata, «gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali».
La modifica dell’articolo 4 citato si basa su una «presa d’atto del legislatore in base alla quale le nuove tecnologie, soprattutto telematiche, hanno superato la dicotomia tra strumento deputato al controllo del lavoratore e strumento di lavoro, perché alcuni strumenti telematici, sconosciuti quando fu varato lo Statuto del lavoratori, costituiscono nell’attuale sistema di organizzazione del lavoro normali strumenti per rendere la prestazione lavorativa, pur realizzando nello stesso tempo un controllo continuo e capillare sull’attività del lavoratore». Ferma la possibilità per il datore di munirsi di telecamere per tutelare il patrimonio aziendale, sono perseguibili penalmente «le manifestazioni del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro lesive della dignità e della riservatezza del lavoratore».
La vigilanza sul lavoro «va mantenuta – conclude il collegio – in una dimensione “umana”, e cioè non esasperata dall’uso di tecnologie che possono rendere la vigilanza stessa continua e anelastica, eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro». La Corte suprema rigetta il ricorso. Una sentenza, secondo Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, che non fa una grinza, anche col Jobs Act. Legittimo tutelare il patrimonio aziendale, ma la vigilanza va mantenuta in una dimensione umana, rispettando riservatezza e dignità del lavoratore.