L’assistenza che giustifica la fruizione da parte del dipendente dei permessi dal lavoro a beneficio di un soggetto disabile è da intendersi in senso lato, tanto da comprendere sia l’accudimento personale del disabile presso la sua abitazione sia tutte quelle attività comunque svolte nel suo interesse.
La Corte di Cassazione ha confermato, con una recente sentenza del 27-11-2018, il proprio orientamento in materia di legittima fruizione dei permessi per assistere un familiare affetto da handicap, giudicando pienamente legittima la condotta di un dipendente che, durante le ore di permesso, non si trovava personalmente con il soggetto da assistere ma, come accertato nel corso del giudizio, aveva comunque svolto attività in favore dello stesso.
I permessi sono quelli previsti dall’art. 33, comma 3, della Legge n. 104/1992, ossia i tre giorni di assenza retribuita al mese, coperti da contribuzione figurativa, riconosciuti ai dipendenti, pubblici e privati, per assistere il coniuge, un parente o affine entro il secondo grado in situazione di gravità, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap abbiano compiuto sessantacinque anni di età oppure siano anch’essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti. Il diritto ai permessi in parola è riconosciuto unicamente nel caso in cui il soggetto con handicap non sia ricoverato a tempo pieno presso una struttura di riabilitazione e/o cura.
L’unica condizione di legittima fruizione del permesso è la sua stretta coerenza con il fine assistenziale. Il dato testuale ha condotto i giudici verso un’interpretazione estensiva della nozione di “assistenza”, annoverandovi tutte quelle attività ed incombenze svolte anche in assenza del disabile, ma nel suo esclusivo interesse, attività che il soggetto più debole non sarebbe in grado di espletare da solo (Cassazione, sentenza n. 23891 del 02-10-2018).
Pertanto, il concetto di assistenza di cui alla Legge n. 104 del 1992 non è da intendersi in senso meramente sanitario e materiale, ma anche psicologico ed affettivo, come l’attività svolta nell’interesse dell’assistito non deve necessariamente esplicarsi solo ed esclusivamente in casa, ma anche nello svolgimento di incombenze in uffici e/o negozi.
Atteso il particolare costo sociale che la fruizione dei permessi comporta, la Suprema Corte qualifica come abuso del diritto il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che si avvalga dei permessi in esame non per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, qualsiasi essa sia: tale condotta, integrando una grave violazione degli obblighi gravanti sul dipendente, ha rilevanza disciplinare.
I giudici hanno peraltro ribadito come configuri un abuso del diritto anche la condotta del dipendente che fruisca dei permessi per ristorare le proprie energie psico-fisiche in seguito ad un’attività assistenziale effettivamente prestata. Si pensi ad esempio alla cura offerta al familiare nel corso della notte e alla fruizione del permesso il giorno seguente: anche in tali ipotesi la fruizione dei permessi è stata giudicata illegittima, in quanto la tutela offerta dal Legislatore non ha funzione meramente compensativa e/o di ristoro delle energie impiegate dal dipendente per un’assistenza comunque prestata; l’assenza dal lavoro deve essere funzionale all’aiuto del disabile, in caso contrario è illegittima.
In ultimo, si sottolinea come il particolare disvalore riconosciuto nella condotta del dipendente che abusi del diritto di assentarsi dal lavoro per prestare assistenza ad un proprio familiare disabile abbia condotto i giudici a ritenere integrato il delitto di truffa in un caso in cui il dipendente, avendo chiesto ed ottenuto di poter usufruire dei giorni di permesso retribuiti, li abbia utilizzati per recarsi all’estero in viaggio di piacere, non prestando, quindi, alcuna assistenza.
Ferdinando Onorato