L’angolo della psicologa -Imparare a camminare sulle acque: la fiducia

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In questo articolo invece “impariamo a camminare sulle acque”, ovvero impariamo a fidarci. 

Chi mi conosce e legge le poche righe che scrivo, per lo più sulla mia pagina FB, sa che è mia abitudine far dialogare la psicologia e la fede, in un dialogo non sempre compreso ed accettato da tutti ma estremamente possibile ed utile a quanti hanno voglia di volare con due ali invece che con una soltanto.Pubblicità

Partiamo da un’immagine che prendiamo in prestito dal Vangelo: camminare sulle acque. Che significa camminare sulle acque?

Nel 2016, un artista contemporaneo, Christo, ha costruito una passerella di 4,5 chilometri sulle acque del Lago d’Iseo, in provincia di Brescia, promettendo ai visitatori di farli camminare sulle acque, il passaggio è stato realizzato utilizzando 70.000 metri quadri di tessuto giallo-arancione, sostenuti da un sistema modulare di pontili galleggianti formato da 200.000 cubi in polietilene ad alta densità, che dire, la passerella ha retto e nessuno è caduto nelle acque del lago, l’artista non si è sbagliato ed i visitatori si sono fidati vivendo sicuramente una bellissima esperienza ed unasensazione difficilmente riproducibile.

Duemila e rotti anni prima, Gesù fece lo stesso, ma senza passerella, senza galleggianti e senza ormeggi. Camminò sulle acque del “mare di Tiberiade”, in realtà un lago chiamato mare per le sue grandi dimensioni. Il mare, “jam” in ebraico, viene tradotto anche con “grandi acque”, “diluvio” sia nella Bibbia come anche nelle antiche culture del vicino Oriente ed è simbolo del caos primordiale, della morte, del nulla e del male, luogo popolato da mostri, del pericolo, in una sola parola.

Bene, Gesù cammina sulle acque, con fede e fiducia, senza paura, sfidando il pericolo. Così non fa Pietro il suo discepolo, il quale, dalla barca, sul mare in tempesta, vedendo un uomo in lontananza camminare sulle acque si spaventa enormemente, per accertarsi che fosse il Signore, domanda di farlo andare verso di lui, Gesù acconsente e Pietro comincia a camminare sulle acque e lo fa non per via di qualche potere eccezionale ma solo perché si fida e cammina finché non smette di fidarsi, lasciando il posto alla paura e cominciando ad affondare chiedendo aiuto e Gesù che lo salva.

Che significa dunque fidarsi? La fiducia è un atteggiamento, verso gli altri o verso sé stessi, che risulta da una valutazione positiva di fatti, circostanze, relazioni, per cui si confida nelle altrui o proprie possibilità, essa diventa generatrice di senso di sicurezza e tranquillità.

Avere fiducia in sé è strettamente collegato ad avere una buona autostima e queste sono due realtà psicologiche che si formano nella prima infanzia, a contatto con le figure di riferimento, certo nel corso della vita è possibile cambiare e migliorarsi, tuttavia è in quella fase del processo evolutivo che si forma la primordiale idea di noi, quella dura a morire che, a meno che non si intervenga, resterà a farci compagnia per tutta la vita.

Bowlby parlò per la prima volta di fiducia negli anni 80, definendola “fiducia di base” cioè la capacità delle persone di esplorare il proprio ambiente e di affrontare i pericoli senza lasciarsi spaventare o schiacciare dalla preoccupazione di potersi fare del male.

Tale fiducia è tipica di un attaccamento sicuro in cui il bambino e poi l’adulto hanno il coraggio di affrontare ciò che non si conosce e di rischiare. Il bambino con una mamma che è presente ma non invadente se cadrà mentre gioca, per esempio, troverà la mamma a tranquillizzarlo invitandolo a continuare il suo gioco, una mamma che, seppure con tutte le buone intenzioni, non darà gli schiaffi al pavimento, come spesso mi è capitato di vedere e sentire, o al giochino dicendo che quell’oggetto è cattivo e che ha causato il danno, semplicemente si accerterà che tutto vada bene e lascerà, senza troppa ansia che il bimbo riprenda le sue attività.

Se così non accadesse e cioè, se la mamma fosse del tutto assente, svalutante e non curante oppure, al contrario, troppo apprensiva limitando la libertà del figlio o addirittura punendolo perché in precedenza lo aveva avvertito che poteva farsi male, concorrerà a far crescere un bambino che interiorizzerà un modello di sfiducia, nei confronti di se stesso, del mondo esterno pericoloso e degli altri assenti o coercitivi e diventerà un adulto che avrà tanta difficoltà a fidarsi del prossimo e, sebbene involontariamente, tenderà a vedere nei comportamenti degli altri inaffidabilità ed intenzioni cattive. La mancanza di fiducia in noi stessi, in chi ci sta accanto e nel mondo circostante, incide fortemente nella nostra vita e lo fa ancora di più nella fase in cui dovremmo essere noi a decidere, cioè quando diventiamo “grandi” e intraprendiamo nuove relazioni oltre a quelle familiari ed amicali: quelle sentimentali.

Chi ha interiorizzato modelli negativi di relazione sperimenta spesso forme più o meno intense di preoccupazione e paura quando si trova in una relazione emotiva, specialmente nella possibilità di legarsi seriamente a qualcuno perché, ai suoi occhi, questo significherebbe rischiare di essere feriti, abbandonati o delusi esattamente come è successo da piccoli da parte della figura di riferimento.

Si devono pertanto sovvertire gli schemi di pensiero e modificare i modelli interiorizzati, ed è possibile farlo. Bisogna rendersi conto in primo luogo che, a meno che non ripetiamo le stesse mosse, nessun avvenimento di per sé è una coazione a ripetere cioè, la tendenza incoercibile, del tutto inconscia, a porsi in situazioni penose o dolorose, senza rendersi conto di averle attivamente determinate, né del fatto che si tratta della ripetizione di vecchie esperienze. Mi piace riproporre una modalità espressiva di don Tonino Bello, lui diceva “amare voce del verbo morire”, io azzardo “fidarsi, voce del verbo credere”, credere che si possono cambiare le credenze di base che ci fanno percepire sbagliati e si può arrivare a “camminare sulle acque” se si crede di poterlo fare, se si ha fiducia nelle proprie forze e possibilità, compresa quella di cadere e di rialzarsi.

L’invito resta lo stesso: provare, non fasciarsi la testa, ma tentare e tentare ancora anche se si sbaglia provando a guardare a noi stessi, agli altri ed al mondo con occhi nuovi, occhi benevoli, capaci di amare.

dott.ssa Antonella Petrella, psicologa- psicoterapeuta

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