Sardegna: il futuro passa dalle tradizioni locali. Slow Food: lavoreremo sodo per rivalorizzare un’economia straordinaria e autentica

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3milioni e 200.000 pecore, 12.800 pastori, 33 cooperative. Questi i numeri del principale comparto economico della Sardegna, che sta vivendo un periodo difficilissimo. Tutti ricordiamo la protesta di qualche mese fa in cui fiumi di latte sono stati riversati nelle strade. «Un gesto estremo e offensivo, per cui si soffriva a vedere quelle immagini», commenta Piero Sardo, presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità.

«Lì abbiamo capito che non potevamo più aspettare, che Slow Food avrebbe dovuto fare qualcosa per aiutare i pastori sardi e la loro economia». E per farlo è fondamentale rilocalizzare la produzione, rilanciando le tradizioni locali. «Si deve recuperare la capacità di produrre formaggio, perché purtroppo molti giovani pastori si limitano a conferire alle cooperative e hanno perso manualità e tradizioni, mentre la Sardegna è ricca di storie, di formaggi tramandati dalle comunità locali che devono essere tutelati. È un’isola con un patrimonio storico, gastronomico, ambientale meravigliosi ma che pochi conoscono, e purtroppo le dinamiche dell’economia moderna non aiutano a valorizzarlo», aggiunge Stefano Olla, esperto di sviluppo rurale. Il punto è proprio questo: la maggior parte del latte viene conferito alle cooperative o alle aziende private che da anni pastorizzano e trasformano in pecorino romano, votato in maggior parte all’esportazione. E aggiungiamo, pagato pochissimo.

«Gli intenditori conoscevano il fiore sardo e poche altre produzioni della zona, ma la produzione sarda è estremamente ricca e variegata, con una diversità tutta da scoprire. Ciò che è fondamentale fare e per cui Slow Food ha già dato un importante contributo è far conoscere queste realtà e convincere i caseifici industriali a differenziare la produzione», continua Olla. Ma noi siamo qui per dare voce ai produttori locali, quelli che con convinzione difendono il loro patrimonio locale. «Da mio padre e dagli anziani ho imparato l’importanza dei pascoli, ho capito come spostando le pecore si ottenevano prodotti diversi, che valorizzavano l’erba di cui si erano nutrite le pecore. Alla fine il sapore del formaggio dipende soprattutto dalla qualità dei pascoli. Noi abbiamo cercato di valorizzare un prodotto della nostra tradizione familiare ma che riporta una storia comune a tutta la Sardegna, che rivalorizza le tradizioni territoriali», testimonia Gianni Mele dell’azienda Casu’e Babbu di Lodé in provincia di Nuoro, che con costanza munge a mano le sue 300 pecore e a cui fanno eco gli altri produttori Rosa Canu, Salvatore Bussu e Giuseppe Iocci.

Insomma, la questione è spinosa e non di facile e immediata soluzione, ma non mancano le proposte: «Innanzitutto servirebbe migliorare la qualità dei formaggi rivalorizzando il legame con il territorio. Elemento questo che dovrebbe anche essere preso maggiormente in considerazione dai disciplinari presenti, stringendo le maglie per premiare chi davvero produce un formaggio unico nel suo genere», continua Olla. «Oltre poi alla diversificazione dell’offerta pensando a prodotti innovativi o comunque a recupero di tradizioni che stanno scomparendo, è importante lavorare sull’attrattività della Sardegna, che è molto di più di una costa in cui passare le vacanze estive. Da ultimo servirebbero canali di distribuzione più ampi, come ad esempio i Presìdi Slow Food, per aiutare il consumatore a conoscere questo straordinario patrimonio caseario».

I pastori che trovate a Cheese sono davvero esempi di «Resistenza Casearia, per cui Slow Food intende impegnarsi in modo concreto per mettere in atto progetti che possano aiutarli a valorizzare il loro lavoro e i loro formaggi. Ci faremo vivi, ve lo garantisco», promette Piero Sardo. 

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