Il futuro del diritto del lavoro dovrebbe essere poche leggi essenziali e massimo spazio alla contrattazione

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Alfredo Magnifico,

Compleanno speciale per la legge che più di ogni altra ha caratterizzato il mercato del lavoro nel nostro Paese dal dopoguerra ad oggi.

Dopo tanti stravolgimenti cannibaleschi sorgono spontanee alcune domande: Lo Statuto dei lavoratori resta un baluardo imprescindibile per la tutela dei diritti dei lavoratori, o è diventato obsoleto e finisce per pesare come una zavorra sull’evoluzione del sistema economico e del mercato del lavoro?Pubblicità

Le risposte sono diverse a secondo di a chi vengono poste; se parla un filo padronale vorrebbe un mercato del lavoro libero da lacci e lacciuoli, se risponde un sindacalista , magari della vecchia generazione, vorrebbe una regolamentazione che tenga conto di diritti e di retribuzione minima per tutti.

Non si può non tenere conto delle esigenze di un mercato del lavoro mosso da accelerazioni organizzative impensabili solo fino a qualche anno fa che impongono una rivisitazione delle regole in termini di modifica dei singoli istituti o  di tutto impianto normativo complessivo.

Il concetto dualistico tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato va ripensato alla luce di nuovi modelli economici che avanzano.

Tanto per non dimenticare e a futura memoria l’allora ministro del lavoro Brodolini affidò ad una commissione guidata da un giovane e brillante giurista, Gino Giugni, con il quale ebbi la fortuna negli anni settanta sostenere l’esame di diritto del lavoro presso la facoltà di giurisprudenza la sapienza di Roma, la strutturazione della proposta. Il 20 giugno 1969 il Consiglio dei ministri approvò il testo e diede così inizio al cammino parlamentare del disegno di legge “sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro”. Erano anni caldi quelli vissuti dal nostro Paese. Pochi mesi dopo l’Italia avrebbe conosciuto “l’autunno caldo” e non ad opera di cambiamenti climatici ma per cambiamenti sociali che facevano ribollire le piazze. Tra il settembre e il dicembre del ’69 il conflitto sociale raggiunse il suo apice. C’erano 32 contratti collettivi di lavoro bloccati che interessavano oltre cinque milioni di lavoratori e ciò alimentava continue tensioni, manifestazioni, scioperi. Il caso che passerà alla storia come emblematico di quella stagione fu la devastazione di alcune delle linee di montaggio dello stabilimento Fiat di Mirafiori avvenuta il 29 ottobre. La Fiat reagì duramente e denunciò 122 operai ritenuti responsabili dell’accaduto.

La tensione sociale era altissima e fu solo grazie all’opera di mediazione del ministro del lavoro di allora, Carlo Donat Cattin, democristiano succeduto a Brodolini, che si evitò il peggio dopo il ritiro delle denunce da parte aziendale. Il clima nel Paese era veramente cupo. La tensione raggiunse il suo culmine con la strage di Piazza Fontana del 15 dicembre del ’69, che provocò 17 morti e decine di feriti.

In questo clima il Parlamento varò lo Statuto che i più salutarono, come evidenziò l’ampio consenso parlamentare, con favore ma altri evidenziarono come in quel momento venisse definitivamente superato il concetto di rapporto di lavoro basato su vincoli fiduciari tra impresa e lavoratore che, secondo gli indirizzi del Codice Civile, rappresentava elemento fondamentale per una crescita partecipata e duratura dell’impresa.

La legge si articola in 6 titoli, che racchiudono, nell’ordine, norme concernenti la libertà e dignità dei lavoratori (art. 1-13), la libertà sindacale (art. 14-18), l’attività sindacale (art. 19-27), disposizioni varie e generali (art. 28-32), il collocamento (art. 33-34), le disposizioni finali e penali (art. 35-41): norme quindi che da un lato si rivolgono alla tutela del lavoratore nel rapporto di lavoro e, dall’altro, sostengono l’organizzazione e l’attività del sindacato nel contesto aziendale.

Una delle curiosità che spesso ha accompagnato la lettura dello Statuto è rappresentata dalla “anomala” collocazione della sua “norma bandiera”, l’art. 18. La norma, che come è noto sanzionava con obbligo di reintegrazione obbligatoria per i licenziamenti ritenuti illegittimi, non è collocata nel titolo primo (ove sono contenute disposizioni concernenti la libertà e dignità dei lavoratori) unitamente all’art. 7 che prevede le garanzie nei provvedimenti disciplinari, ma nel titolo secondo (la libertà sindacale).

Era il 15 maggio del 1970 quando la Camera con i 217 voti favorevoli della maggioranza al governo (democristiani, socialisti unitari e liberali) e dei repubblicani approvò lo Statuto. Missini, Pci e Psiup si erano astenuti.

Con l’approvazione della legge 300, meglio nota come lo “Statuto dei lavoratori” il 20 maggio 1970, cinquant’anni fa, «La Costituzione entrò nelle fabbriche». rendere così effettivi tutti quei principi di libertà in materia di lavoro previsti dalla Carta ma rimasti, secondo la forza sindacale, in sostanza inapplicati.

La normativa del lavoro è stata segnata da un susseguirsi di “riforme storiche e definitive” destinate ad essere superate da una ennesima riforma “più storica e definitiva” successiva, dalla costituzione di nuovi modelli di rappresentanza sindacale in azienda ad opera della contrattazione collettiva, le RSU, del 1994 alle strutturali modifiche dell’art. 18 a seguito dell’intervento del governo Monti con la riforma Fornero, legge 92/2012. La maggiore innovazione dello Statuto sicuramente la si deve all’attività normativa del governo Renzi con il Jobs Act del 2015.

I lavoratori si trovano a saltare tra rapporti iper tutelati ad altri privi di garanzie. Il popolo delle partite IVA costituisce fenomeno che non può più essere ignorato o liquidato con scelte manichee che oscillano tra la difesa contro lo sfruttamento e ad una disciplina economica priva di ogni supporto di welfare.

La scelta che in questi giorni il Legislatore, ma anche la suprema Corte di Cassazione (sentenza 1663/2020), sembra voler seguire è quella di mantenere un riferimento strutturale e duale tra lavoratori subordinati ed autonomi.

Lo Statuto ha sempre riguardato solo una parte dei lavoratori, i dipendenti delle grandi imprese, escludendo i lavoratori delle aziende sotto i 15 dipendenti.

Le imprese e il lavoro hanno subito un’evoluzione enorme in 50 anni e soprattutto negli ultimi due decenni. Tanto che già 20 anni fasi era iniziato a discutere di un nuovo Statuto dei lavori, progetto al quale si era dedicato Marco Biagi, per dare tutele di base a tutti i lavoratori a seconda delle diverse tipologie e contratti di lavoro,ricordo con affetto un incontro con lui che voleva conoscere l’esperienza della contrattazione del settore del turismo Romano,dove con fantasia avevamo creato un meccanismo premiante,che abbracciava tutti i lavoratori e allo stesso tempo avevamo dato vita ad un fondo che in tempi di crisi interveniva a sostegno del reddito cofinanziato per una parte dai lavoratori e una parte dalle imprese, l’attuale F.I.S, al di là della natura del loro contratto e della dimensione del datore di lavoro. Oggi nel mondo del lavoro cambiato occorrerebbero una base di regole comuni, fondamentali, per tutti e poi una serie di altre tutele differenziate questo stesso sistema dovrebbe comprendere materie come ammortizzatori sociali, politiche attive, welfare e previdenza, un sistema in cui alle tutele di base minime uguali per tutti si potessero poi aggiungere – grazie alla contrattazione, la bilateralità, l’apporto dei privati – altri “pezzi” per ingrandire e migliorare il “puzzle”.

Occorre un cambiamento culturale, di imprenditori e sindacati, verso una reale partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese , evoluzioni come l’Industria 4.0, fortemente automatizzata e interconnessa, lo smart working e più in generale i portati rivoluzionari di progresso tecnologico e globalizzazione non possono che determinare un progresso dei rapporti tra impresa e lavoratori che va oltre il conflitto.

La stagione del lavoro a progetto è stata archiviata in nome di un pragmatismo giuridico ma è stato abbandonato, sbagliando, l’idea della regolamentazione di un lavoro per fasi, per risultato, e quindi abolito una serie di garanzie per lavoratori che saranno sempre di più inseriti in contesti lavorativi innovativi serve passare da una piattaforma di regole e garanzie per i lavoratori subordinati a un modello che consenta di fornire risposte a tutte le tipologie di lavori umani partendo dall’evidenza che prima di ogni diritto esiste una opportunità e che un diritto senza un lavoro è inesistente.

Il futuro del diritto del lavoro dovrebbe essere poche leggi essenziali e massimo spazio alla contrattazione: che sia ben regolata la rappresentanza, per evitare, come purtroppo sta accadendo sempre più spesso in questi ultimi anni, che cresca una “finta contrattazione”, la contrattazione di secondo livello, che oggi copre non più di un terzo dei lavoratori sia estesa il più possibile, anche con patti territoriali. Sarà necessario più di ogni altra cosa che si tenga conto della dimensione internazionale della regolazione del lavoro, a livello europeo e mondiale, tanta legislazione proviene oggi da fonte comunitaria, e di quanta altra ne verrà in un’Unione Europea che si spera maggiormente integrata. Così pure è sempre più evidente che in un mondo in cui le catene di produzione e valore che si sono create a livello internazionale, acquistano sempre maggiore importanza, cresce la necessità di una regolazione omogenea anche in materia di lavoro. Auguri Statuto dei lavoratori 43 anni dei 50 trascorsi insieme

Alfredo Magnifico

Segretario Generale Nazionale Confintesa Smart