Cinema/ ‘La Napoli di mio padre’ di Alessia Bottone

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E’ attualmente in tour per rassegne e festival il corto di Alessia Bottone LA NAPOLI DI MIO PADRE, concepito nell’ambito del corso di formazione del Premio Zavattini nell’edizione 2018/19 che l’autrice ha scelto autonomamente di portare a termine anche grazie al riutilizzo creativo di materiali audiovisivi dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democrativo. Dopo la proiezione dello scorso 24 luglio a Bangkok, il film sarà mostrato il 30 agosto al festival Alberico di Orte e, a seguire, il 12 settembre a San Giorgio a Cremano a Napoli nell’ambito dell’Ethnos Festival, il 25 settembre al Bellaria Festival la prima settimana di ottobre al Sedicorto Film Festival di Forlì e a novembre a Verona.  L’opera è inoltre attualmente in gara per altri festival.

Giuseppe guardava l’orizzonte come si osserva un desiderio, come qualcosa da raggiungere per cercare di essere libero. Fin da bambina sua figlia Alessia, la regista, lo vedeva spesso affacciarsi alla finestra, domandandosi cosa fosse in grado di attirare la sua attenzione in modo così intenso.

 Diversi anni dopo, durante un viaggio di ritorno a Napoli, città natale del padre, Alessia si ritrova a osservare nuovamente il padre. Anche questa volta Giuseppe è sempre di profilo e, mentre il paesaggio scorre incorniciato nel finestrino di un treno, il suo sguardo cerca di catturare ogni momento, per fermare quegli attimi e salvarli dallo scorrere veloce del tempo. Il padre descrive la sua Napoli e la sua infanzia concentrata nel quartiere Vicaria, tra i migranti che affollavano la stazione, Nanninella, Don Mario e il suo amico Napoleone con il quale esplorava la città con due taralli nelle tasche e tanti sogni nella testa. Il racconto di Giuseppe si focalizza anche sul tema della fuga nonché sulla paura dell’ignoto che accomuna gli emigranti italiani del secolo scorso con la valigia di cartone, ai migranti a bordo dei barconi dei giorni nostri. Mentre il treno divora le rotaie chilometro dopo chilometro, Alessia riesce a capire a cosa pensava e cosa vedeva suo padre quando si affacciava alla finestra: i suoi ricordi. Il ritorno a Napoli si trasforma quindi in un’occasione per raccontare il viaggio di una vita e conoscere le proprie origini. Perché per quanto lontano possiamo andare, torniamo sempre là, dove tutto è iniziato.

L’idea del film nasce da due esigenze: da una parte la necessità di raccontare, in una storia, il rapporto tra padre e figlia; dall’altra la volontà di focalizzarmi sul tema della fuga, intesa dalla realtà ma anche come mezzo di sopravvivenza per i migranti e i richiedenti asilo.Il film trae ispirazione da un viaggio a Napoli con mio padre e mio fratello, a bordo di un treno notturno, durante il quale sono finalmente riuscita a capire cosa vedeva mio padre quando, anni prima, si affacciava alla finestra: i suoi ricordi.

 Chi sei papà? Cosa vedi fuori da questo finestrino? Tu torni a casa, io invece dove sto andando?

Questi sono alcuni degli interrogativi che mi sono posta durante quel viaggio. Mi sono sempre sentita parte di un Sud che ho conosciuto solo grazie agli aneddoti di mio padre e di un Nord dove sono nata e cresciuta e mi sono chiesta se questa sensazione fosse condivisa anche dai figli dei nuovi migranti. Vivere in un contesto in cui convivono più culture è indubbiamente arricchente, ma trovare una propria identità all’interno di questa ricchezza non è sempre facile. Ho quindi raccolto i ricordi di mio padre per poi tornare nella sua città natale e mi sono ritrovata davanti ad uno specchio, sorprendendomi di riuscire a vedere, finalmente, un’altra parte di me stessa. Mi sono dedicata al tema della migrazione per sintetizzare la mia esperienza sia come giornalista che come dipendente di un centro di accoglienza in Svizzera, dove ho lavorato con persone che vivevano in fuga alla ricerca di un posto nel mondo. Ho deciso di allontanarmi dai numeri e dalle statistiche per porre l’attenzione sulla paura dell’ignoto che accomuna gli emigranti italiani del secolo scorso con la valigia di cartone, ai migranti e richiedenti asilo sui barconi dei giorni nostri.

Il risultato è un dialogo silenzioso tra viandanti, che custodiscono gelosamente il loro passato pur combattendo l’ambiziosa battaglia dell’accettazione e dell’integrazione in una nuova terra. Il tema è affrontato grazie alle immagini degli sbarchi di migranti albanesi del 1991 dell’Archivio Aamod e le riprese dei salvataggi in mare ad opera della ONG Sea Watch. Il ruolo della figlia è stato affidato all’attrice veronese Valentina Bellè, la quale ha saputo trasformare i miei interrogativi in una storia universale, un racconto che accomuna tutti coloro che sentono il bisogno di avventurarsi nella parte più intima del proprio vissuto. La voce di Valentina, talvolta malinconica e al tempo stesso magnetica e avvolgente, permette allo spettatore di entrare in contatto con i suoi sentimenti e con i suoi ricordi di bambino e lo incita ad affrontare i dubbi con coraggio e con uno sguardo indulgente.

 Da un punto di vista narrativo, mi sono ispirata al racconto “Un paio di occhiali” di Anna Maria Ortese. La protagonista dell’opera, una bambina napoletana allegra, molto povera ed estremamente miope ottiene in regalo un paio di occhiali che, per la prima volta, le permettono di vedere ciò che ruota attorno a sé. A quel punto, rendendosi conto dello squallore della sua esistenza, getta gli occhiali nel fango e preferisce tornare a vivere come prima, ignorando la realtà. Lo stesso fa Giuseppe, che fin da piccolo decide di vedere il mondo solo come piace a lui. La reazione di sua madre, che di fronte alla scoperta dell’esistenza di un altro modo di vivere si nasconde dietro le persiane della cucina, pur di non sentirsi giudicata, lo segna particolarmente indicandogli la via da seguire: il viaggio verso nuove mete all’insegna della libertà dal pregiudizio. Ed è proprio la voce narrante di Giuseppe che ci accompagna in una Napoli che non esiste più ma continua a vivere nei suoi ricordi. Le immagini di archivio danno forma al suo viaggio nel passato, accompagnando lo spettatore in una dimensione onirica. Grazie alla partecipazione al Premio Zavattini, ho compreso la forza delle immagini di archivio e la loro vitalità ed è come se mi avessero suggerito che quella era l’unica strada da percorrere per raccontare il viaggio di una vita. La ricerca delle immagini e il loro studio, che si muoveva di pari passo con la ricostruzione dei ricordi, hanno reso la realizzazione di questo film il viaggio stesso che volevo raccontare.

ALESSIA BOTTONE

Regista, sceneggiatrice e giornalista laureata in Istituzioni e Politiche per i Diritti Umani e la Pace. Nel 2017 consegue il Master in Sceneggiatura Carlo Mazzacurati dell’Università degli Studi di Padova. Si è occupata della regia, sceneggiatura del cortometraggio Violenza invisibile, dedicato alla violenza psicologica sulle donne e di due documentari: Ritratti in controluce e di Ieri come oggi.

Nel 2013 pubblica Amore ai tempi dello stage, Galassia Arte 2013, e due anni dopo, Papà mi presti i soldi che devo lavorare?, Feltrinelli. Nel 2017 le sono stati riconosciuti alcuni premi per le sue inchieste. Tra questi: il “Premio Giornalistico Claudia Basso” con l’inchiesta Pfas, il “Premio Alessandra Bisceglia” per la comunicazione sociale e infine il “Premio Massimiliano Goattin” per la realizzazione di una video inchiesta sulle barriere architettoniche. Nel 2018 rientra tra i finalisti del “Premio Cesare Zavattini” per la realizzazione di progetti di riuso creativo del cinema d’archivio e del “Premio Luzzati” per cortometraggi. La Napoli di mio padre, è il suo primo cortometraggio a base di archivio.

Ufficio stampa AAMOD: Elisabetta Castiglioni