Mentre la retribuzione oraria cresce in media di circa il 3 % , l’aumento dei prezzi sfiora il 6%, questo impoverisce le famiglie che da una parte perdono potere d’acquisto dall’altro l’incremento viene automaticamente annullato dall’aumento dei prezzi.
I dati li ha resi noti l’Istat, che ha precisato: l’indice mensile delle retribuzioni contrattuali orarie a dicembre scorso ha registrato un più 5,1% rispetto a novembre e del 7,9%, equiparato allo stesso mese dell’anno precedente.
Con queste differenze: più 4,5% per i dipendenti dell’industria, 2,4 per quelli dei servizi privati, 22,2 per la pubblica amministrazione.
Le cifre, per l’istituto di statistica, sono fortemente influenzate dall’erogazione anticipata dell’incremento dell’indennità di vacanza contrattuale (per il 2024) per i dipendenti a tempo indeterminato delle amministrazioni statali. Gli indici di gennaio, quindi, non potranno che registrare una variazione congiunturale negativa.
Anche se la decelerazione dell’inflazione nel 2023 ha ridotto la distanza tra la dinamica dei prezzi e le retribuzioni contrattuali a circa tre punti percentuali, il dato italiano sfigura davanti a quello dell’Europa, fornito dalla Bce: la crescita dei salari nel quarto trimestre del 2023 è stata del 4,5% in media.
Le cifre risentono del grande numero di contratti che da anni non sono stati rinnovati, per oltre dieci milioni di lavoratori il contratto è scaduto da anni, mai rinnovato, e che per questo sono rimasti indietro, servizi, terziario, commercio, distribuzione, turismo: tutto questo interviene sulla bassa crescita complessiva del monte salari, senza contare che anche nei contratti che si rinnovano riesce difficile mantenere il potere d’acquisto.
E’ sempre più difficile adeguare i salari all’inflazione con i contratti che vengono rinnovati dopo anni: il tempo medio di attesa è aumentato dai 20,5 mesi di gennaio 2023 ai 32,2 mesi di dicembre 2023.
A pagare il prezzo più alto sono le famiglie ,lo conferma una ricerca dell’Osservatorio Acli, che afferma che le famiglie italiane hanno perso 240 euro al mese a causa dell’inflazione dal 2019 al 2022, ovvero fra 317 e 150 euro a seconda del nucleo.
Per rendere comprensibile la perdita del potere d’acquisto l’analisi trasforma la cifra in carrelli della spesa per beni primari, ipotizzando un costo a carrello di circa 90 euro.
Le famiglie con due redditi senza carichi hanno perso circa otto carrelli annuali (pari a 700 euro); i separati o divorziati senza carichi sei carrelli, come sei sono i carrelli persi da single e unioni di fatto, fino a toccare i quattro carrelli persi dalle famiglie monoreddito e dai vedovi (330 euro).
La perdita del potere d’acquisto è in media dell’8,7% sul totale delle famiglie analizzate, affermano le Acli, in un range che va dal 4,5 al 10%.
Dal 2020 al 2023 è aumentato anche il numero delle famiglie entrate in povertà relativa a causa dell’inflazione, che ha eroso i redditi del ceto medio più del Covid: sono passate dal 7,6% del 2022 al 9,8 del 2023.
Alle Acli questo pedaggio inflattivo lo hanno definito: “tassa invisibile”, non rilevabile in busta paga, ma che ha limitato fortemente le scelte di spesa, andando a colpire anche i beni primari.
Di certo non rassicurano gli ultimi dati Istat sul carrello della spesa degli italiani che a gennaio ha rallentato: gli aumenti dei prezzi dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona passano da più 5,3% a più 5,1 e quelli dei prodotti ad alta frequenza d’acquisto da più 4,4% a più 3,5.
Basta pensare che un litro di latte fresco intero costa quanto un litro di benzina e ha fatto registrare un aumento dello 0,2% in un solo mese, mentre l’olio extravergine, da mesi in testa ai rialzi, è salito nuovamente di un più 2% in un mese (più 44,4% su base annua).
Alfredo Magnifico