Donne al lavoro: dopo i primi due anni, i figli non sono un’ostacolo

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La partecipazione delle donne al mercato del lavoro resta in Italia tra le più basse nel confronto europeo: nel 2008 il tasso di occupazione femminile era pari al 47,2 per cento (31,3 nel Mezzogiorno) e superiore al 60 per cento in Francia e in Danimarca. Sono questi i dati emersi da uno studio condotto da due economiste della Banca d’Italia, Concetta Rondinelli e Roberta Zizza sul mondo lavorativo delle donne. Secondo l’analisi, il nostro Paese è, inoltre, tra quelli con tassi di fecondità molto bassi (1,4 figli per donna, contro 2,0 in Francia e in Danimarca) e presenta uno dei più forti squilibri tra uomini e donne nel tempo dedicato al lavoro domestico e di cura. In gran parte della letteratura economica, si stima una relazione negativa tra maternità e offerta di lavoro femminile: l’impegno per la cura dei figli sembrerebbe quindi costituire un ostacolo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Vi sono tuttavia fattori non osservabili, quali le preferenze, il talento, le ambizioni, che influenzano sia le decisioni riproduttive sia quelle di lavoro e che rendono più complessa l’identificazione del nesso di causalità. Questo studio, basato sull’Indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia per il 2008, utilizza un indicatore di infecondità quale strumento, nell’analisi econometrica, per prevedere il numero di figli. Per definizione, questo indicatore coglie un fattore che influisce direttamente sulla maternità ma non sull’offerta di lavoro, consentendo di stimare l’effetto causale. L’infecondità è desunta dalle motivazioni di natura biologica o fisiologica che spiegano l’eventuale discordanza tra il numero dei figli avuti e desiderati. L’indicatore consente di guardare al comportamento di tutte le donne, anche delle non madri, una caratteristica particolarmente utile nel contesto italiano di bassa fecondità.
Per cogliere gli effetti di lungo termine, si stima la probabilità di occupazione delle donne con fecondità quasi completa, tenendo conto del numero di figli e di una serie di variabili socio-demografiche.
In linea con studi analoghi riferiti agli Stati Uniti, al Regno Unito e, più di recente, ai paesi latino-americani, il lavoro mostra che la relazione negativa tra numero di figli e probabilità di occupazione femminile viene meno quando le stime sono ottenute facendo ricorso allo strumento dell’infecondità.
Emergono invece indizi di un effetto negativo della maternità sulla qualità del lavoro posseduto (qualifica occupazionale, tipo di contratto, orario di lavoro). Questi risultati sono confermati utilizzando l’Indagine sulle nascite condotta dall’Istat nel 2004: l’analisi evidenzia che i figli hanno un impatto negativo, anche se non significativo, per le donne con bambini di età inferiore ai due anni. In conclusione, nel lungo periodo e a parità di altre condizioni, non sembra esservi in Italia un effetto negativo della maternità sull’offerta di lavoro femminile e non esiste, quindi, necessariamente un conflitto tra politiche che incentivino l’una e l’altra.