Cassazione: no alle dimissioni rapide dall’ospedale la salute è più importante

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La salute deve prevalere sui criteri di economicità relativi al contenimento della spesa sanitaria e pertanto le dimissioni del paziente dal ricovero in ospedale devono essere decise solo in base a valutazioni di “ordine medico”, e non legate ai criteri fissati dalle ‘linee guida’ in uso nelle strutture sanitarie. È questo il principio espresso dalla Suprema Corte con la sentenza 8254/2011 della quarta sezione penale che Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico “Tutela del Consumatore” di Italia dei Valori e fondatore dello “Sportello dei Diritti” riporta, che ha annullato l’assoluzione di un medico dall’accusa di omicidio colposo di un paziente reduce da un intervento cardiaco e dimesso dopo 9 giorni, in virtù dei criteri delle linee guida.
Nel caso di specie la Cassazione ha applicato tale principio accogliendo il ricorso dei familiari del paziente deceduto per essere stato dimesso troppo frettolosamente e della procura della Corte d’Appello di Milano che si erano opposti all’assoluzione di un medico dell’ospedale civile di Busto Arsizio.
L’ammalato era stato ricoverato il 9 giugno 2004 per infarto al miocardio e sottoposto ad intervento chirurgico venendo dimesso dopo 9 giorni, il 18 giugno Nella stessa notte, il paziente decedeva per un arresto cardiocircolatorio nonostante il tempestivo intervento dei familiari che lo avevano trasportato al Pronto Soccorso.
Secondo una perizia medico-legale, la vittima sarebbe certamente sopravvissuta per le rapide cure che avrebbe ricevuto in reparto se non fosse stato dimesso frettolosamente tant’è che in primo grado il medico firmò che le dimissioni, venne condannato a 8 mesi di reclusione e a risarcire i danni morali ai familiari. I giudici dell’appello avevano deciso per l’assoluzione di quest’ultimo “perché il fatto non costituisce reato” in quanto il medico aveva seguito le linee guida in tema di dimissioni.
Tale assunto è stato nuovamente ribaltato dai giudici di piazza Cavour che nel cassare con rinvio la sentenza della corte d’Appello non hanno lesinato critiche nei confronti delle ‘linee guida’ obiettando che “nulla si conosce dei loro contenuti, né dell’autorità dalle quali provengono, né del loro livello di scientificità, né delle finalità che con esse si intende perseguire, né è dato di conoscere sé rappresentino un ulteriore garanzia per il paziente” oppure se “altro non sono che uno strumento per garantire l’economicità della gestione della struttura ospedaliera”. Ma gli ermellini hanno calcato la mano applicando un principio sacrosanto: “A nessuno è consentito di anteporre la logica economica alla logica della tutela della salute, né di diramare direttive che, nel rispetto della prima, pongano in secondo piano le esigenze dell’ ammalato”. Peraltro, la Suprema Corte ha voluto ammonire i medici sulla circostanza che in primo luogo devono rispondere al loro codice deontologico in base al quale hanno il dovere “di anteporre la salute del malato a qualsiasi altra diversa esigenza” e, pertanto, non sono tenuti “al rispetto di quelle direttive laddove esse siano in contrasto con le esigenze di cura del paziente, e non possono andare esenti da colpa ove se ne lascino condizionare, rinunciando al proprio compito e degradando la propria professionalità e la propria missione a livello ragionieristico”.