Se non è dimostrato il collegamento con l’attività, niente inclusione tra i componenti negativi del reddito
Con la sentenza n. 4443 del 24 febbraio, la Corte di cassazione ha stabilito, in tema di determinazione del reddito d’impresa, che i proventi in natura o in denaro conseguiti a titolo di contributo o di liberalità sono considerati sopravvenienze attive, a meno che il loro ammontare sia accantonato in apposito fondo del passivo e sia destinato alla copertura delle perdite, ovvero non sia utilizzato per uso personale o familiare dell’imprenditore, ovvero ancora non sia distribuito ai soci. In caso contrario il detto ammontare costituisce sopravvenienza attiva tassabile, a prescindere dal suo accantonamento.
Il fatto
La vicenda trattata concerne un avviso di accertamento notificato a una società di capitali, con il quale venivano contestati svariati costi indeducibili in materia di Irpeg e Irap, ossia costi non adeguatamente specificati rispetto ai quali era messo in dubbio il fondamentale principio di ”inerenza”. Inoltre si contestava un contributo per l’acquisto di un terreno in quanto, non trattandosi di bene ammortizzabile, lo stesso doveva essere considerato come ricavo di cassa.
La società opponeva, in sede di impugnazione, che comunque andavano detratti i maggiori ricavi per sopravvenienze attive costituite dai contributi utilizzati per l’acquisto del terreno. Gli altri costi (relativi a lavorazioni su pezzi plastici, a un corso di formazione per l’apprendimento di una lingua straniera e altri per la revisione del bilancio) andavano regolarmente dedotti in quanto asserviti all’esercizio di impresa nei termini fiscali.
Il ricorso trovava parzialmente accoglimento davanti la Commissione tributaria provinciale, la cui decisione veniva completamente riformata pro contribuente dal giudice di appello, il quale argomentava a supporto, quanto al contributo per l’acquisto del terreno, che, al fine di evitare doppia imposizione, il medesimo non poteva essere tassato come ricavo ma essere ricompreso nell’imponibile da computare in conto impianti. Tutti gli altri costi erano comunque inerenti all’attività di produzione dell’impresa.
Ricorre per cassazione l’Agenzia delle Entrate.
Decisione di merito
Secondo la Suprema corte, le doglianze dell’ufficio sono meritevoli di accoglimento.
Relativamente alla prima censura, la conferma della tassazione dei contributi ricevuti per l’acquisto di beni patrimonio discende direttamente dal tenore letterale della normativa inerente del Tuir, nonché dalla giurisprudenza comunitaria (in particolare sentenza Corte di giustizia europea, causa C-427/05 del 27 ottobre 2007).
Secondo la normativa dell’imposizione sui redditi, i proventi in natura o in denaro conseguiti a titolo di contributo o di liberalità sono da considerarsi vere e proprie sopravvenienze attive, che entrano a comporre il reddito d’impresa, ai sensi dell’articolo 55, comma 3, lettera b), del Dpr 917/1986, testo originario applicabile al caso di specie ratione temporis, anche se possono essere esentati dall’imposizione qualora il loro ammontare sia accantonato in apposito fondo del passivo destinato alla copertura delle perdite o non sia stato utilizzato per uso personale o familiare dell’imprenditore o non sia stato distribuito ai soci.
Anche la Corte di giustizia, preso atto che l’imposizione portata dal Dpr 917/1986 è indipendente anche dall’esistenza di contributi comunitari, ha stabilito che l’articolo 21, comma terzo, secondo periodo, del Regolamento Ce n. 4253/88, come modificato dal Regolamento Ce n. 2082/93 ove dispone che i pagamenti ai beneficiari finali “devono essere effettuati senza alcuna detrazione o trattenuta che possa ridurre l’importo dell’aiuto finanziario al quale essi hanno diritto”, non osta a una disciplina tributaria nazionale, quale la citata disposizione del Tuir, che include pure contributi versati dai fondi comunitari nella determinazione del reddito imponibile.
La Corte di cassazione aveva già stabilito (sentenza 2082/2008) che, a seguito della pronuncia della Corte di giustizia, è accertato che il prelievo tributario operato sui fondi strutturali europei per effetto del concorso di tali contributi alla base imponibile dell’imposta sui redditi dovuta dal contribuente – secondo la legislazione italiana – non costituisce violazione dell’articolo 21 del Regolamento 4253/88. Ciò in quanto l’applicazione della disciplina fiscale non presenta un nesso diretto e intrinseco con l’erogazione dei fondi, ai sensi delle disposizioni comunitarie, poiché è diretta a incidere indistintamente su tutti i redditi conseguiti dal soggetto passivo d’imposta.
Peraltro, è da aggiungere, per completezza, che la formulazione dell’articolo 55, lettera b), del Tuir, in vigore fino al 31 dicembre 1997, non operava alcuna distinzione tra i contributi in conto capitale e contributi in conto impianti, considerando sopravvenienze attive tutti i contributi diversi da quelli erogati in conto esercizio: “i proventi in denaro o in natura conseguiti a titolo di contributo o di liberalità, esclusi i contributi di cui alle lettere e) e f) del comma 1 dell’art. 53. Tali proventi concorrono a formare il reddito nell’esercizio in cui sono stati incassati o in quote costanti nell’esercizio in cui sono stati incassati e nei successivi ma non oltre il quarto; tuttavia il loro ammontare, nel limite del 50 per cento e se accantonato in apposita riserva, concorre a formare il reddito nell’esercizio e nella misura in cui la riserva sia utilizzata per scopi diversi dalla copertura di perdite di esercizio o i beni ricevuti siano destinati all’uso personale o familiare dell’imprenditore, assegnati ai soci o destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa” (cfr risoluzione 22 gennaio 2010, n. 2).
L’onere della prova
Per quanto attiene alla questione dell’inerenza all’attività d’impresa delle operazioni contabili effettuate dalla società, le Entrate hanno sostenuto nel ricorso per cassazione che non era onere dell’ufficio fornire le prove dirette alla convalidazione del costo. Anche in questa fattispecie, la Corte di legittimità ha accolto le doglianze dell’ufficio e, di conseguenza, poiché il contribuente non aveva fornito la prova che tali costi rivestissero il carattere di stretto collegamento con l’attività d’impresa, che la loro detrazione non era da ritenersi corretta.
Dall’assunto valorizzato dalla Suprema corte deriva in linea generale che, ai fini delle imposte sui redditi e dell’Iva, affinché un costo possa essere incluso fra le componenti negative del reddito d’impresa, non soltanto è necessario che ne sia certa l’esistenza, ma occorre altresì che ne sia comprovata l’inerenza, e per provare tale ultimo requisito non è sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata dall’imprenditore, dovendo l’imputabilità del costo anche collegarsi a fatti (e decisioni) comunque riferibili al soggetto che tale costo si deduce, in ottemperanza ai contenuti prescrittivi dell’articolo 75 del Dpr 917/1986 (vigente ratione temporis) e dell’articolo 19 del Dpr 633/1972 (Cassazione 22790/2009, 18302/2008).
Inoltre, la Cassazione, anche alla luce della sesta direttiva del Consiglio 77/388/Cee, come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, ha già affermato il principio secondo cui “in tema di IVA, l’art. 19, comma 1, D.P.R. n. 633/1972, consentendo al compratore di portare in detrazione l’imposta addebitatagli a titolo di rivalsa dal venditore quando si tratti di acquisto effettuato nell’esercizio dell’impresa, richiede, oltre alla qualità d’imprenditore dell’acquirente, l’inerenza del bene acquistato all’attività imprenditoriale, intesa come strumentalità del bene stesso rispetto a detta specifica attività, ed inoltre, non introducendo una deroga ai comuni criteri in tema di onere della prova, lascia la dimostrazione di detta inerenza o strumentalità a carico dell’interessato” (Cassazione 3706/2010, 16730/2008, 11765/2008, 3022/2007).
In tal modo, la Cassazione ha consolidato l’orientamento secondo cui (sentenze 1709/2007, 11078/2008), in tema di imposte sul reddito, con riferimento alla determinazione del reddito d’impresa, l’onere della prova circa l’esistenza e l’inerenza dei costi, ai sensi dell’articolo 2697 cc, incombe al contribuente, per cui (sentenze 18710/2005, 11240/2002, 10802/2002, 16198/2001) è questi che, ove intenda sostenere l’esistenza di costi maggiori di quelli considerati, deve documentare che essi sono stati effettivamente affrontati e sono inerenti all’esercizio cui l’accertamento si riferisce.Affermando che incombeva all’ufficio la dimostrazione dell’inerenza delle operazioni contestate nell’accertamento stesso, la Commissione tributaria regionale ha evidentemente violato la disposizione dettata dall’articolo 2697 cc e tanto ha imposto al giudice di legittimità di cassare la sentenza impugnata.
Salvatore Servidio
Fonte: http://www.nuovofiscooggi.it/giurisprudenza/articolo/dedurre-i-costi-sostenuti-l-impresa-deve-provarne-l-inerenza