Consulenza a costi sproporzionati. Prova di congruità al contribuente

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Per quanto sopra, l’onere della prova dell’inerenza dei costi, nonché della competenza, presupposti della deducibilità ex articolo 75 del Tuir (oggi, articolo 109), gravante sul contribuente anche per discendenza civilistica (articolo 2697 cc), in presenza di argomentata contestazione, ha ad oggetto anche la “congruità” dei costi stessi, intesa come “proporzionalità” tra la spesa sostenuta in relazione all’attività esercitata e il volume dei ricavi dichiarato (per l’Iva, cfr la fondamentale disposizione contenuta nell’articolo 19 del Dpr 633/1972). In altri termini, la valutazione della congruità dei costi è insita nei poteri di accertamento dell’Amministrazione finanziaria, la quale può procedere alla rettifica delle dichiarazioni osservando le regole dettate dal legislatore in materia di reddito di impresa, negando la deducibilità di parte di un costo, ove questo superi il limite al di là del quale non possa essere ritenuta la sua inerenza ai ricavi o, quanto meno, all’oggetto dell’impresa; ciò anche non ricorrendo irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici compiuti nell’esercizio d’impresa.

Rileva poi la Corte che, nella fattispecie sottoposta alla sua valutazione, non è tanto da valorizzare il fatto in sé (illecita destinazione delle risorse costituenti il costo) quanto piuttosto, anche secondo un giudizio emergente dall’id quod plerumque accidit:
la contestata “sproporzione” delle somme erogate rispetto a una pura e semplice attività consulenziale
la mancata prova da parte della contribuente, in presenza di tale rilievo, della loro adeguatezza, sotto il profilo dell’irragionevolezza in termini economico-quantitativi delle attività svolte.

A tal fine, l’esercizio del potere di rettifica delle dichiarazioni non rende anche necessario l’accertamento della nullità dei negozi giuridici attraverso i quali i fatti di gestione dell’impresa sono realizzati (Cassazione 12813/2000).

La Cassazione rileva ancora sul piano concreto che la correttezza dell’operato dell’Ufficio deriva dal raffronto eseguito in sede di accertamento tra il “fatto noto” – costituito dal contenuto della lettera acquisita agli atti – e la sproporzione delle somme imputate in bilancio rispetto alla remunerazione di un’attività di consulenza. Le risultanze di questo accadimento appaiono, quindi, agli occhi della Corte di legittimità, adeguatamente pertinenti rispetto all’oggetto dell’accertamento, anche considerando la continuità dei rapporti – regolati da un contratto di rappresentanza – intercorsi da tempo tra la società estera e la società contribuente, “da cui si evince la molteplicità degli incarichi conferiti e le modalità di corresponsione delle commissioni, subordinate alla clausola salvo buon fine”.
Anche riguardo a quest’ultimo elemento, ne è stata suggellata la legittimità, considerato che la Suprema corte si è espressa più volte sull'”idoneità” di elementi tratti da periodi di imposta diversi da quello oggetto dell’accertamento, indicando che, ai fini dell’accertamento del reddito d’impresa ai sensi dell’articolo 39, comma 1, lettera d), Dpr 600/1973, assumono rilevanza anche le emergenze presuntive che possono essere utilizzate come fonte di prova di attività non dichiarate, di guisa che una riscontrata, potenziale redditività di un’impresa in esercizi diversi da quelli oggetto dell’accertamento può essere suscettibile di fornire elementi indizianti ai fini della rettifica dei redditi relativi a tali ultimi esercizi e del realizzato conseguimento di utili maggiori di quelli dichiarati quando risulti incontestata l’oggettiva continuità dell’attività imprenditoriale (Cassazione 10656/2001).

Analoghe pronunce in materia di Iva
Anche ai fini Iva, la questione della detraibilità dell’imposta è stata affrontata più volte dalla Corte di cassazione e, quasi sempre, il giudice di legittimità ha concluso con l’affermare l’obbligatorietà del requisito dell’inerenza, precisando come tale requisito debba essere dimostrato dalla parte contribuente.

In particolare, con la sentenza 3706/2010, la sezione tributaria si è pronunciata in materia di condizioni necessarie per effettuare legittimamente una detrazione Iva, con particolare riferimento al requisito dell’inerenza del bene acquistato rispetto all’attività esercitata, e ha affermato che l’articolo 19, comma 1, Dpr 633/1972, pur consentendo all’acquirente di portare in detrazione l’imposta addebitatagli a titolo di rivalsa dal venditore, ancorché si tratti di acquisto effettuato nell’esercizio di impresa, richiede, oltre alla qualità d’imprenditore dell’acquirente, l’inerenza del bene acquistato all’attività imprenditoriale, intesa questa come strumentalità del cespite stesso rispetto a detta specifica attività. Secondo tale impostazione, che riprende un indirizzo giurisprudenziale già esistente (Cassazione 16730 e 11765 del 2008, 3022/2007), la norma, non introducendo una deroga ai comuni criteri di onere della prova, lascerebbe la dimostrazione di detta inerenza o strumentalità a carico dell’interessato. Nei casi di specie, in sostanza, la possibilità di effettuare la detrazione richiederebbe un quid pluris rispetto al solo requisito soggettivo (qualità di imprenditore in capo all’acquirente) costituito dall’inerenza o strumentalità del bene acquisito rispetto all’attività imprenditoriale.

La Corte di cassazione si è anche più volte pronunciata sul tema, di grande attualità, dell’indebita detrazione Iva relativa a costi fittizi, chiarendo che l’inesistenza di una determinata operazione deve essere provata dall’Amministrazione finanziaria, quale parte attrice sostanziale del rapporto tributario dedotto davanti all’organo giurisdizionale, ma che conseguentemente spetta all’Erario l’onere di dimostrare la falsità della fattura (intesa quale documento attestante l’effettuazione dell’operazione). Tuttavia, laddove siano dedotti indizi idonei a confutare la veridicità dei documenti contabili, spetterà al contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni imponibili (Cassazione 15395/2008), cosiddetta “prova di estraneità” (cfr Cassazione 17377/2009).

In proposito, il problema che sta impegnando in modo ricorrente la giurisprudenza concerne il tema della prova della falsità delle fatture. Su questo versante si segnala la pronuncia 4013/2010, nella quale la Suprema corte ha aggiunto al precedente dictum l’affermazione che nello specifico contesto il diritto alla detrazione non sorge immancabilmente per il solo fatto dell’avvenuta corresponsione di imposta formalmente indicata in fattura, richiedendosi, altresì, che l’imposta sia effettivamente dovuta, cioè corrispondente a operazioni effettivamente soggette a Iva (Cassazione 735/2010; cfr anche Cassazione 13916/2006 e 11084/2008).
Salvatore Servidio

Fonte: http://www.nuovofiscooggi.it/giurisprudenza/articolo/consulenza-a-costi-sproporzionati-al-contribuente-la-prova-di-congruita