Lo ripetiamo senza sosta da anni: dietro autovelox e apparecchi elettronica della velocità non c’è sempre la volontà di migliorare la sicurezza, ma molti, troppi enti locali li utilizzano per ” far cassa” comportandosi non di rado, illegittimamente per non dire illecitamente. A dare conferma di questi assunti allo “Sportello dei Diritti”, di cui Giovanni D’Agata é presidente, é la sentenza n. 7020, depositata ieri 13 febbraio dalla seconda sezione penale della Corte di Cassazione a seguito della quale verrà riaperto il processo per le multe alle auto con l’apparecchio non in regola con il decreto Bianchi. Appaiono fin troppo zelanti gli agenti per non far sospettare l’accordo con l’appaltatore che guadagna a percentuale. Per la Suprema Corte, nella fattispecie il giudice dell’udienza preliminare non può pronunciare il «non luogo a procedere» se in dibattimento astrattamente possono essere rivalutati gli elementi di prova acquisiti nel corso delle indagini da cui emerge la sospetta truffa con l’autovelox agli automobilisti che si sospetta possa essere stata architettata dai vigili urbani e dal titolare dell’impresa che gestisce l’autovelox. Nel caso di specie, i giudici di legittimità hanno accolto il ricorso del procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Cosenza, dopo che il gup calabrese aveva dichiarato il non luogo a procedere per i reati di truffa e falso ideologico nella contestazione di verbali al codice della strada nei confronti di tre imputati. Le indagini erano state avviate a seguito della denuncia di un privato che aveva segnalato alla procura della Repubblica che la procedura di contestazione e rilevamento della velocità dei veicoli tramite autovelox reiteratamente non avveniva nel rispetto delle disposizioni del decreto Bianchi (Dl n. 117/2007). Come sovente accade, la visibilità delle apparecchiature era gravemente compromessa da chi si occupava della gestione del servizio. Ma per il gup la condotta «lungi dal rivestire le caratteristiche di un artificio e/ o raggiro, sarebbe stata il frutto di una certa trascuratezza nell’espletamento del servizio», ed aveva escluso la sussistenza di un accordo finalizzato a truffare gli automobilisti. Ma il sospetto del raggiro risulterebbe comunque evidente, stante «l’ostinata reiterazione di modalità di accertamento palesemente contrastante con il dettato legislativo che dimostra che i vigili urbani addetti al controllo si preoccupavano di favorire la società concessionaria del servizio, rivelando così l’accordo tacito volto a beneficiare il titolare della medesima ditta». Risulta, peraltro, altrettanto chiaro l’interesse del titolare dell’impresa individuale (che percepiva una percentuale sulle multe realmente riscosse), a far elevare il numero più elevato di multe da parte degli accertatori e non a garantire la sicurezza degli utenti della strada. Secondo gli ermellini «il non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p., comma 3, deve essere pronunciato dal gup, pur in presenza di prove che in dibattimento potrebbero ragionevolmente condurre all’assoluzione dell’imputato, solo se e in quanto questa situazione di innocenza sia ritenuta immutabile e non superabile in dibattimento dall’acquisizione di nuove prove o da una diversa e possibile rivalutazione degli elementi di prova già acquisiti». Ed infatti, per come rilevato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 39915/2002, «la valutazione critica di sufficienza, non contraddittorietà e comunque di idoneità degli elementi probatori, secondo il dato del novellato art. 425 c.p.p., comma 3 è sempre e comunque diretta a determinare, all’esito di una delibazione di tipo prognostico, divenuta oggi più stabile per la tendenziale completezza delle indagini, la sostenibilità dell’accusa in giudizio e, con essa, l’effettiva, potenziale, utilità del dibattimento in ordine alla regiudicanda».