Buono il metodo induttivo, anche in contabilità ordinaria

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Valide sia la ricostruzione del volume d’affari dell’ufficio sia l’ispezione della GdF a casa del contribuente
Accogliendo il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, con la sentenza n. 7813 del 31 marzo, la Corte di cassazione ha stabilito, in tema di determinazione del reddito d’impresa, che se l’amministratore di un’azienda è intestatario di due utenze telefoniche, una relativa al deposito e l’altra figurante come abitazione, può essere legittimata la verifica ispettiva della Guardia di finanza nel domicilio reale del contribuente.
Il fatto
Il contenzioso trova origine nei rilievi mossi dall’Amministrazione finanziaria nei confronti del contribuente, principalmente sotto il profilo della ricostruzione del volume d’affari e del reddito imponibile (omessa contabilizzazione di ricavi/corrispettivi), anche per il tramite del metodo di accertamento induttivo, considerate le gravi incongruenze riscontrate in sede di verifica della Guardia di finanza conclusa con correlato processo verbale di constatazione.
Il verificato, esercente attività di commercio all’ingrosso di salumi e formaggi, si oppone all’atto impositivo notificato, eccependone sostanzialmente:
l’invalidità della motivazione, in quanto asseritamente priva di validi supporti sostenibili poiché basata su semplici assunti presuntivi
l’illegittimità dell’imputazione a proventi non dichiarati delle movimentazioni risultanti dal conto corrente bancario intestato al contribuente perché frutto di una inammissibile sommatoria aritmetica delle operazioni, ascrivibili invece a versamenti e prelevamenti “per legittime necessità economiche” del titolare e dei propri familiari.
Le asserzioni del contribuente trovano pieno accoglimento in Commissione tributaria provinciale, con conferma anche in secondo grado, nella cui decisione la Ctr motiva:
che la Guardia di finanza ha ispezionato illegittimamente l’abitazione del contribuente senza che ricorressero, nella specie, i presupposti previsti dall’articolo 52, comma 2, del Dpr 633/1972, ossia l’imprescindibile sussistenza di “gravi indizi” di violazioni alla normativa tributaria
che l’autorizzazione all’accesso da parte della competente Procura della Repubblica fosse sfornita di motivazione e che, per l’effetto, il susseguente avviso di accertamento avesse recepito “acriticamente”, le argomentazioni valorizzate nel propedeutico verbale ispettivo trasmesso all’ufficio
l’illegittima imputazione a ricavi d’impresa delle operazioni attive e passive eseguite sul conto corrente bancario per le ragioni esposte dal contribuente, tanto più che l’impresa operava in regime di contabilità ordinaria (articolo 14, Dpr 600/1973), cosicché le scritture contabili dell’impresa – per tale ragione – farebbero piena prova a favore dell’imprenditore e non dell’ente impositore.
Nell’osteggiare tali argomentazioni, con ricorso per cassazione, l’Amministrazione finanziaria contrappone la fondatezza della pretesa erariale, per conformità sia alla normativa civilistica sull’onere della prova (articoli 2727 e 2729 c.c.) e sull’efficacia probatoria delle scritture contabili (articolo 2709 c.c.), sia alla normativa fiscale in materia (articoli 51 e 52 del Dpr 633/1972, articolo 75 del Dpr 917/1986 e articoli 32 e 39 del Dpr 600/1973). Semmai sarebbe illegittima, illogica, manifestamente omissiva e contraddittoria la motivazione della sentenza di seconde cure, soprattutto in merito al rilievo preliminare circa l’accesso domiciliare della Guardia di finanza.
La decisione
La Suprema corte assume la fondatezza del ricorso andando a demolire dalle radici più profonde le motivazioni della sentenza impugnata, assegnando così al giudice del rinvio l’arduo compito della ricostruzione in termini della controversia, bilanciando con le dovute considerazioni gli elementi “trascurati o contraddittoriamente valutati” dalla sentenza annullata.
A indurre tale rigore metodologico sono le trame argomentative della decisione di secondo grado, “gravemente carenti” nella valutazione degli elementi di fatto oggetto del giudizio di appello.
Infatti, nella sentenza 7813/2010, è evidenziato che sono stati negligentemente trascurati nella valutazione del secondo giudice i circostanziati elementi di “pericolosità” fiscale rapportati dall’ufficio finanziario al procuratore della Repubblica per il rilascio del provvedimento autorizzativo all’accesso, come:
la redditività denunciata dal contribuente, in termini di volume d’affari e ricavi, che risultava di gran lunga inferiore alla potenzialità reale dell’attività esercitata dall’impresa
la sede dell’attività dichiarata dall’impresa come effettiva (ex articolo 35, Dpr 633/1972), che veniva invece utilizzata per magazzino (operazioni di carico e scarico delle merci, peraltro limitatamente a un orario fisso della giornata)
e, soprattutto, l’intestazione di due utenze telefoniche, ove la sede effettiva veniva indicata come deposito, mentre l’abitazione veniva dichiarata come sede reale della vendita all’ingrosso dei beni commercializzati (salumi e formaggi).

Tutte le indicate circostanze indiziarie, che facevano ragionevolmente presupporre l’esistenza di una situazione di diritto (simulata) contraria a quella di fatto (dissimulata), non sono state valorizzate nella loro esatta dinamica dalla Commissione regionale nel momento in cui ha espresso un giudizio di insufficienza motivazionale sull’autorizzazione all’accesso.
Mentre l’ufficio, avendole rappresentate nell’istanza alla Procura, ha trovato positivo riscontro e legittimazione nell’accoglimento della richiesta medesima. Senza trascurare di evidenziare poi che, trattandosi di una tematica molto delicata (l’accesso domiciliare incide su posizioni soggettive garantite dalla Costituzionequale l’inviolabilità del domicilio), il giudice del riesame è stato erroneamente indotto a credere in un provvedimento privo degli idonei supporti normativi.
Altra grave carenza della sentenza impugnata concerne il merito dell’accertamento susseguente alla verifica bancaria, implementato invece con sufficienza, prima, dalla Guardia di finanza, poi, dall’ufficio, nel cui iter procedimentale è emerso che sul conto corrente personale dell’imprenditore erano confluite somme di gran lunga superiori agli importi dei ricavi risultanti dai libri contabili dell’impresa nell’anno considerato.
Tali afflussi non sono stati affatto giustificati dal contribuente, come richiedono le norme interessate ai fini della prova della non inerenza delle movimentazioni bancarie con l’attività dell’impresa, contenute, rispettivamente, negli articoli 32 del Dpr 600/1973 e 51 del Dpr 633/1973, venendosi così a realizzare il fondato convincimento che trattasi di proventi dell’attività “deviati” ai fini di eludere la tassazione, convincimento “rafforzato” anche dal rinvenimento, durante la verifica strumentale presso l’abitazione del titolare della ditta, di documentazione extra-contabile dalla quale emergevano operazioni non fatturate, annotate separatamente rispetto a quelle registrate nella contabilità ufficiale.
La decisione impugnata non trae, inoltre, alcun “insegnamento” dall’orientamento consolidato della Cassazione, secondo cui, in tema di accertamento delle imposte sui redditi e dell’Iva, i dati raccolti dall’ufficio in sede di accesso ai conti correnti bancari del contribuente consentono, in virtù della presunzione contenuta nelle norme, di imputare gli elementi da essi risultanti direttamente a ricavi dell’attività d’impresa, salva la possibilità per il contribuente di provare che determinati accrediti non costituiscono proventi della detta attività (cfr, sentenze 326/2009, 430/2008, 3115/2006, 8614/2003 e 4601/2002).
Peraltro, la Corte rimarca il fatto che “tutte le movimentazioni in entrata ed uscita sono state operate dal contribuente in dare e avere sul conto “titolare” e sul conto “cassa”, con regolari annotazioni sul mastrino nella più assoluta trasparenza e che tali passaggi sono comunque riferiti ad operazioni non attinenti all’impresa”, ma anche di tali rilevanti circostanze la Ctr non si è fatta alcun carico, tanto da legittimarne la regolarità basandola sulla considerazione surrettizia che un regime di contabilità ordinaria opererebbe una sorta di “scudo” per ripararsi dalle irregolarità contabili e dichiarative commesse.
La prassi giurisprudenziale
Sull’erroneo convincimento della Ctr, riguardo l’illegittima “sommatoria” di versamenti e prelievi ai fini della ricostruzione induttiva del reddito di impresa, la giurisprudenza di legittimità (cfr, Cassazione, sentenze 587/2010, 4589/2009, 13818/2008, 14018/2007, 2450/2007, 19920/2006, 3115/2006 e 28342/2005) ha ripetutamente affermato il principio che nel processo tributario, qualora l’accertamento effettuato dall’ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari:
da un lato, è onere del contribuente, a carico del quale si determina un’inversione legale dell’onere della prova, dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non siano riferibili a operazioni imponibili
dall’altro, l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, ex lege, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti medesimi.

Giova inoltre aggiungere che l’assunto, valorizzato dalla giurisprudenza, trova specifico supporto normativo nell’articolo 32, comma 1, n. 2), del Dpr 600/1973, il quale, nel testo in vigore all’epoca dei fatti, disponeva (e dispone) che i singoli dati ed elementi risultanti dai conti sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti, se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto a imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine.
Alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi a base delle stesse rettifiche, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario, i prelevamenti annotati negli stessi conti e non risultanti dalle scritture contabili.
Con specifico riferimento all’Iva, la stessa giurisprudenza (cfr Cassazione, sentenze 26312/2009, 25473/2008 e 19447/2005) ha affermato che l’emissione di assegni da parte dell’amministratore, non giustificata da documentazione commerciale, fa legittimamente presumere che la società abbia effettuato operazioni non fatturate di acquisto e rivendita di beni, potendosi partire dalla presunzione legale prevista dall’articolo 51, comma 2, del Dpr 633/1972, per la quale i prelevamenti annotati nei conti correnti bancari sono serviti per acquistare merci successivamente commercializzate, per poi costruire su tale prova legale i conseguenti passaggi logici, vale a dire che le merci non rinvenute nei luoghi in cui il contribuente esercita la sua attività sono state poi rivendute con la percentuale di ricarico applicata normalmente dalla società.
In effetti, con la norma contenuta nell’articolo 51, il legislatore ha imposto una regola di giudizio inderogabile (presunzione legale), salvo prova contraria (non fornita nella specie), secondo la quale gli organi dell’accertamento, prima, e il giudice, poi, non possono valutare diversamente i prelevamenti se non come relativi ad acquisti. Pertanto, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di merito, correttamente gli organi di controllo fiscale, nella ricostruzione dei ricavi sottratti a imposizione, sono partiti dal dato certo (per dettato legislativo) che tutti i prelevamenti dai conti dell’amministratore sono serviti per acquisti relativi all’attività di produzione e commercio della ditta stessa.
Infine, a proposito dell’ulteriore postulato del giudice del riesame, secondo cui una contabilità ordinaria farebbe piena prova a favore dell’imprenditore, si ricorda che l’adozione del metodo induttivo, in sede di accertamento delle imposte, non trova alcuna causa ostativa nella regolare tenuta della contabilità da parte del contribuente, laddove gli elementi, i dati e le notizie in possesso dell’Amministrazione finanziaria assumano rango di materiale indiziario sufficiente per fondare presunzioni munite dei caratteri di gravità, precisione e concordanza suscettibili di inficiare l’attendibilità formale delle scritture contabili (cfr Cassazione, sentenze 7184/2009, 18421/2005 e 8422/2002).
Salvatore Servidio

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