Indennità di trasferta, trattamento fiscale e previdenziale

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La Fondazione Studi Consulenti del Lavoro interviene, con la circolare n. 6 del 13 aprile 2010 in merito a quanto affermato dal Ministero del lavoro, con l’interpello n. 14 del 2 aprile 2010, circa il trattamento fiscale e previdenziale dell’indennità di trasferta.
In particolare, è stato chiesto di sapere se un datore di lavoro può erogare ai dipendenti un’indennità di trasferta superiore a quella stabilita in sede di contrattazione collettiva, nazionale o di secondo livello applicando, comunque, l’esenzione ai fini fiscali e contributivi prevista dall’articolo 51, comma 5, del Tuir.
L‘interpretazione che il Ministero ha fornito condiziona la non imponibilità della somma in funzione del tipo di contratto che prevede l’aumento, arrivando a sostenere – come meglio si dirà in seguito – che nei casi in cui l’indennità di trasferta è prevista da accordi individuali, la parte che eccede il minimo stabilito dal contratto collettivo, deve essere considerata “superminimo individuale” e come tale assoggettata a imposte e a contributi.
Indennità riconosciuta da un contratto collettivo.
Il Ministero afferma che un’indennità di trasferta, erogata in base a un accordo collettivo aziendale, di importo superiore a quella prevista dalla contrattazione collettiva nazionale, costituisce una deroga in melius (pacificamente ammissibile sotto il profilo lavoristico) specificando, tuttavia, che devono essere rispettate alcune condizioni, vale a dire:
– le indennità convenute negli accordi aziendali non devono configurare una sottrazione al fisco di parte della retribuzione spettante al lavoratore;
– si devono applicare le disposizioni contenute nell’articolo 3, commi 1 e 2, del decreto legge 318/96 (legge 402/96), tra cui il deposito degli accordi collettivi relativi a tali elementi presso la Direzione Provinciale del Lavoro territorialmente competente e presso gli enti previdenziali.
Quanto al secondo punto, si rileva che il Ministero del lavoro chiama in causa una norma del 1996 che, segnatamente all’articolo 3, comma 1, afferma: “La retribuzione dovuta in base agli accordi collettivi di qualsiasi livello non può essere individuata in difformità dalle obbligazioni, modalità e tempi di adempimento come definiti negli accordi stessi dalle parti stipulanti, in riferimento alle clausole sulla non computabilità nella base di calcolo di istituti contrattuali e di emolumenti erogati a vario titolo, diversi da quelli di legge, ovvero sulla quantificazione di tali emolumenti comprensiva dell’incidenza sugli istituti retributivi diretti o indiretti.
Allo stesso fine valgono le clausole per la limitazione di tale incidenza relativamente ad istituti retributivi introdotti da accordi integrativi aziendali in aggiunta a quelli previsti dal contratto collettivo nazionale di lavoro. Le predette disposizioni operano anche agli effetti delle prestazioni previdenziali“.
E il comma 2 aggiunge: “Ai fini dell’applicazione del comma 1, i contratti e gli accordi collettivi contenenti clausole o disposizioni di cui al comma 1 sono depositati dalle parti stipulanti presso l’ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione e presso la competente sede degli enti previdenziali interessati competenti territorialmente. Il deposito degli accordi di cui al comma 1 è effettuato entro trenta giorni dalla loro stipulazione”.
La mera lettura della norma richiamata, evidenzia che la stessa risponde a logiche che non sembrano più conformi con il quadro giuridico vigente. Essa fu introdotta, infatti, per rispondere a una pressante richiesta, proveniente dal mondo del lavoro, tendente a ottenere l’inserimento di compensi, erogati a vario titolo, in istituti diretti o indiretti, quali la tredicesima mensilità, la retribuzione per le ricorrenze festive, per le ferie, ecc.; vale a dire su emolumenti determinati in relazione alla retribuzione corrente e sui quali si era generato un contenzioso. Fu proprio la norma in esame a risolvere la questione dando – alle parti stipulanti – la facoltà di prevedere che un certo elemento retributivo sia già comprensivo dell’incidenza su altri istituti diretti o indiretti e di stabilire che un determinato componente della retribuzione, introdotto in più – rispetto a quelli stabiliti dal CCNL – non incida su altri elementi retributivi, compresi quelli definiti dalla legge (INPS circ. n. 195/96). Proprio per questo, la legge del 1996 ha previsto il deposito degli accordi.
Ciò posto, dal punto di vista normativo l’interpello in esame sembrerebbe ignorare quanto disposto dall’articolo 9, del decreto legislativo 314/97 che, a partire dal 1 gennaio 1998, abroga espressamente “le disposizioni concernenti la determinazione dei redditi di lavoro dipendente, diverse da quelle considerate nel testo unico delle imposte sui redditi”. Per questo motivo, il collegamento all’articolo 3, del decreto legge n. 318/96 e alle procedure dallo stesso individuate, parrebbe riprodurre uno scenario non più coerente con l’attuale, mutato contesto legislativo.
Indennità riconosciuta da un contratto individuale.
Nella seconda parte della risposta, il Ministero precisa che se l’indennità di trasferta – superiore a quella contrattualmente prevista – è “riconosciuta non a livello di contrattazione collettiva bensì in un accordo individuale con singoli lavoratori, si ritiene che, in tale ipotesi, debba applicarsi la disciplina concernente l’istituto del c.d. “superminimo individuale” (eccedenza della retribuzione rispetto ai minimi tabellari). L’eccedenza rispetto all’importo di natura collettiva viene infatti considerata alla stregua del c.d. “superminimo individuale” e quindi soggetta all’imponibilità fiscale e contributiva”.
In verità, può essere genericamente definito “superminimo”, un’erogazione aggiuntiva prevista dal contratto individuale soltanto se essa è concessa senza un titolo specifico, cioè come semplice gratificazione per il lavoratore. Qualora, invece, il trattamento aggiuntivo – rispetto alla contrattazione collettiva – è erogato per un titolo (ragione) specifico, esso deve essere più correttamente definito in base alla propria funzione.
Conseguentemente se un datore di lavoro concede, ad esempio, una somma a titolo di indennità di trasferta in misura superiore a quanto stabilito dagli accordi collettivi, tale somma conserva la natura di indennità di trasferta e deve essere regolato secondo la disciplina che il contratto collettivo o la legge stabiliscono per tale erogazione, escludendosi, dunque, la regola dell’assorbibilità, tipica del superminimo “generico”. (Cass. civ. Sez. lavoro, 9 luglio 2004, n. 12788; ;Cass. Civ.,7 agosto 1999, n. 8498; Cass. Civ., 13 marzo 1996, n. 2058; Cass. Civ., 25 febbraio 1994, n. 1899; Cass. Civ., 11 ottobre 1989, n. 4064; Cass. Civ., 7 gennaio 1988, n. 3; Cass. Civ., 22 luglio 1987, n. 6379; App., Milano, 18 ottobre 2000; Cass. Civ., 9 luglio 2004, n. 12788; Trib. Torino, 6 maggio 2000;)
Peraltro, come affermato dalla Corte di Cassazione (sentenza 8075/09) anche se la natura dell’indennità di trasferta non fosse stata espressamente connotata, sarebbe agevole individuarne tale natura qualora – dalla documentazione prodotta – emergesse che l’erogazione è tesa a remunerare i giorni svolti al di fuori della sede normale di lavoro.
La logica conclusione a cui si perviene é che le somme erogate al lavoratore a titolo di trasferta, anche se in misura superiore a quanto stabilito dal CCNL, restano, ontologicamente, retribuzione corrisposta a tale titolo e non può, in alcun modo, essere considerata superminimo la misura che, eventualmente, eccede il limite fissato dal CCNL.
Il CCNL non prevede importi massimi di retribuzione e/o indennità, ma solo importi minimi che possono essere migliorati anche da un accordo individuale – sulla scorta del principio di favor rei – in base alle dinamiche del rapporto di lavoro, conservando la natura originaria della somma.
Una diversa interpretazione porterebbe ad un’illegittima violazione dell’autonomia contrattuale, laddove le parti abbiano rispettato i minimi del CCNL.
Una consolidata giurisprudenza afferma che il datore di lavoro ha la facoltà di accordare ai propri dipendenti un trattamento di miglior favore, rispetto a quello stabilito dai contratti collettivi, specificando che tale principio è desumibile dall’art. 2077 c.c.(Cass. Civ., 17 maggio 1996, n. 4570).
Secondo un altro orientamento, anche quando il datore di lavoro accorda ai propri dipendenti un trattamento di miglior favore, rispetto a quello stabilito dai contratti collettivi, resta comunque vincolato alle proprie determinazioni che definiscono il trattamento retributivo relativo alle varie qualifiche (Cass. Civ., 16 dicembre 1985, n. 6392).
È di ausilio, per i fini che qui interessano, ricordare quanto statuito dalla Cassazione, seppure in materia di imponibilità, circa la natura degli emolumenti erogati a titolo di indennità di trasferta in misura superiore a quanto previsto dal CCNL. La previsione dell’art. 12, secondo comma, della legge n. 153 del 1969 (nel testo vigente anteriormente all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 314 del 1997), secondo cui le somme corrisposte al lavoratore a titolo di indennità di trasferta in cifra fissa sono imponibili ai fini contributivi nella misura ridotta del 50% del loro ammontare, trova applicazione anche in relazione agli importi di tale indennità pattuiti in misura superiore a quella prevista dalla contrattazione collettiva, atteso che la citata disposizione non contiene alcun riferimento, neanche implicito, a tale contrattazione, che possa far considerare come interamente retributivo l’importo eccedente la misura fissata in sede collettiva (cfr Cass. Sez. Lav., sent. n. 18869 del 10-11-2003).
L’analisi sin qui effettuata porta, dunque, a ritenere che nel nostro ordinamento giuridico non esiste alcuna norma che trasformi in superminimo ciò che le parti hanno pattuito essere indennità di trasferta.
Fonte: http://www.finanzaediritto.it/articoli/indennita-di-trasferta:-trattamento-fiscale-e-previdenziale-5074.html