Per l’avviso di accertamento bastano i dati del questionario

0
381

Non è obbligatorio, ma una mera facoltà dell’Amministrazione, invitare il contribuente a fornire chiarimenti
L’ufficio finanziario che ha esercitato il potere di richiedere informazioni sulla contabilità del contribuente mediante questionari, e le ha ottenute, non ha alcun obbligo di ulteriori controlli per emettere l’avviso di accertamento. A maggior ragione, se dalle informazioni fornite emergono incongruenze e inesattezze contabili.
Questo, in sintesi, il contenuto della sentenza della Corte di cassazione n. 8507 del 9 aprile, che ha accolto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, facendo giustizia del “disordine contabile” contenuto nel giudicato di merito contestato.

Il fatto
La Corte suprema ha, dunque, completamente ribaltato il verdetto dei giudici della Commissione tributaria regionale, alle prese con un avviso di accertamento in materia di Ilor e Iva (oltre che di Irpef in capo ai soci, per trasparenza ex articolo 5 del Tuir), parzialmente riformato dalla Commissione tributaria provinciale, che ha avuto come protagonista della vicenda una società in accomandita semplice fallita e un socio accomandatario (anch’egli fallito per l’effetto), su cui in appello era stata disposta dall’Amministrazione finanziaria una consulenza tecnica (Ctu).
Dalla relazione peritale erano emerse diverse irregolarità e contraddizioni nell’operato del contribuente sia con riguardo ai dati esposti in dichiarazione sia rispetto a una precedente perizia espletata nel corso del primo giudizio. Esemplificando, le anacronistiche emergenze erano un’evidente sproporzione tra le entrate e le uscite dell’azienda; cambiali di “comodo” in favore della società quando era evidente la natura di titoli in nero emessi da alcuni finanziatori, soci sia del soggetto indagato (la Sas) che di altre aziende; conti del socio cointestati con quelli della società nonché conti personali del socio sui quali affluivano versamenti e prelevamenti facenti capo alla società; nominativi di soggetti forniti di partita Iva che, pur avendo avuto rapporti con la società, come da dichiarazioni rilasciate da loro stessi al Ctu, non figuravano tra la clientela dell’impresa fallita, elemento questo a convalida ulteriore della presenza nella compagine societaria di ricavi occulti.
Ma non è tutto. Dall’istruttoria implementata dall’Agenzia delle Entrate con la richiesta di chiarimenti e comprova documentale di alcune poste contabili non era stata comunque dipanata la confusione tra entrate e uscite dei conti correnti del socio con quelle della società.
La Commissione regionale, invece, a fronte di tali indizi di rilevante gravità, aveva avallato le ragioni avanzate dal contribuente, dichiarando l’illegittimità dell’accertamento con la “fragile” asserzione, tra l’altro, che i pagamenti eseguiti dalla società “dovessero considerarsi giustificati in quanto trovavano capienza nella contabilità della società”, venendo così a tacciare l’operato dell’ufficio di violazione degli articoli 32 del Dpr 600/1973 e 51 del Dpr 633/1972 per mancato rispetto di termini del contraddittorio con il contribuente previsto da tali norme. A giustificazione dei propri assunti motivazionali, asserisce comunque il giudice dell’appello, anacronisticamente, che la perizia del Ctu espletata nel corso del secondo giudizio avrebbe ridimensionato gli importi accertati dall’ufficio con l’atto impositivo, riscontrando soltanto “modeste differenze” tra entrate e uscite.
L’Agenzia delle Entrate ha impugnato il giudicato del riesame, con una serie articolata di motivi, tutti univocamente finalizzati a evidenziare violazione della normativa in contestazione nonché degli articoli 2697 e 2729 del codice civile, sull’onere della prova e sulle presunzioni, e insufficiente motivazione in quanto sia dal riscontro dei dati bancari che dalla documentazione della società esaminata erano emersi elementi indiziari e presuntivi (quali versamenti nei conti non giustificati, pretesi pagamenti e altre operazioni che non trovavano riscontro nella contabilità esaminata, ecc.) da rendere “inattendibile” la contabilità nel suo complesso, così da giustificare sufficientemente i maggiori ricavi/corrispettivi accertati in capo alla società.

La decisione della Cassazione
Con la motivazione della sentenza 8507/2010, il Collegio di legittimità ritiene non corretta la decisione della Commissione di seconde cure, riesaminando così la vicenda nel suo completo svolgimento.
In tale analisi valutativa, la Suprema corte considera condivisibile la tesi dell’Amministrazione fiscale quanto al disappunto sull’omesso invito del contribuente per fornire chiarimenti in ordine ai dati risultanti dalla documentazione bancaria, poiché il contraddittorio amministrativo, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr Cassazione, sentenze nn. 16837/2008, 2450/2007, 18421/2005, 6232/2003, 8422/2002, 4273/2001), non è obbligatorio, ma costituisce una mera facoltà, com’è indicato dalla locuzione “gli uffici possono … invitare i soggetti, ecc.”, contenuta negli omologhi articolo 51, comma 2, del Dpr 633/1972 e 32 del Dpr 600/1973, non essendo retta l’attività amministrativa dal principio del contraddittorio; dette norme, infatti, riconoscono all’ente impositore il potere e non il dovere di procedere all’esecuzione di accessi, ispezioni e verifiche, di invitare i contribuenti, indicandone il motivo, a comparire di persona o per mezzo di rappresentanti per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento nei loro confronti. Con la conseguenza che dal mancato esercizio di tale facoltà non deriva alcuna illegittimità dell’accertamento (Cassazione 14675/2006). Sul fronte procedurale, quindi, all’Amministrazione finanziaria non incombeva più alcun onere se non procedere su base analitico-induttiva, ricorrendone i presupposti.
Tanto più che, nella specie, il socio amministratore, a seguito invio del questionario con richiesta di specifiche notizie, ha fornito gli estratti dei conti correnti bancari, rilevandosi dagli stessi – in esame congiunto con la complessiva documentazione aziendale – discrasie sostanziali tali da rendere palese l’irregolare tenuta della contabilità, nella quale si confondevano versamenti e pagamenti, ossia ricavi e corrispettivi, dovuti alla società o dalla stessa dovuti a terzi con somme versate dai presunti “finanziatori” di comodo.
A giustificare ancora una volta (cfr Cassazione 7813/2010) il condivisibile estremo rigore impresso dal Collegio alla sentenza in esame sono le trame argomentative “gravemente” carenti del giudice del riesame nella valutazione degli elementi di fatto e di diritto oggetto del giudizio di appello.
Deve infatti rimarcarsi che, nella fattispecie, l’Amministrazione aveva fornito un imponente quadro indiziario (presunzioni ex articolo 2729 codice civile), idoneo a riferire i conti correnti e i relativi movimenti bancari alla società, comprensivo di vari elementi, tra i quali vanno richiamati il fatto che il rappresentante legale della società in questione facesse transitare sui suoi conti rilevanti importi inerenti la società rappresentata. Ne deriva che, nella vicenda, contrariamente a quanto affermato nella sentenza impugnata, erano emersi sufficienti segnali di pericolosità fiscale idonei a costituire il sostrato di una presunzione legale, avverso la quale non è stato invece fornito alcun utile elemento contrario da parte del contribuente, cui incombeva il relativo onere probatorio (in tal senso, Cassazione 21455/2009).
Bene quindi ha operato l’ufficio, a fronte della complessa situazione contabile della società e del socio sui cui conti personali transitavano – per sua esplicita ammissione – importi relativi alla società stessa.
Peraltro, anche le risposte al questionario erano state reticenti e manchevoli, in quanto il socio amministratore, ottemperando all’invito, aveva presentato documenti che solo parzialmente servivano a ricostruire la contabilità nella sua interezza; anche la documentazione prodotta conteneva inesattezze grossolane che dovevano sicuramente “allertare” i giudici della Commissione tributaria regionale.
Peraltro la Ctu disposta in secondo grado aveva proceduto a esaminare solo alcuni dei conti correnti rispetto alla maggioranza non prodotti per l’annualità de qua e invece ritenuti esaustivi dall’organo giudicante, senza essere considerata la possibilità che i pagamenti fossero avvenuti a mezzo di entrate ignote al Fisco, anche perché non c’era stato alcun riscontro tra somme fatturate e pagate in concreto.
Ma, in ultima analisi, quello che emergeva dal contesto documentale rivelava la contraddizione della sentenza impugnata rispetto al “disordine contabile” riscontrato, tanto che il giudice del rinvio – investito del nuovo esame della vertenza – dovrà attenersi alla regula iuris indicata dalla Corte, motivando “specificamente circa il puntuale riscontro dei dati contabili e bancari con quelli peritali”.
Ciò vuol dire che anche il difetto di motivazione della sentenza impugnata, quindi sostanzialmente omessa (Cassazione 5051/2010), dedotto nei motivi di ricorso dell’Amministrazione finanziaria, coglie nel segno.
Salvatore Servidio

Fonte: http://www.nuovofiscooggi.it/giurisprudenza/articolo/lavviso-di-accertamento-bastano-i-dati-del-questionario