Istruzione universitaria all’estero. E’ ok la normativa fiscale italiana

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Garantite la libera prestazione di servizi e la libertà di circolare e soggiornare negli stati membri
Gli articoli 18 e 49 del Trattato Ce ostano a una normativa nazionale che preveda la possibilità di detrarre dall’imposta lorda le spese per i corsi di istruzione universitaria tenuti da istituti universitari situati nel proprio territorio, ma che escluda in termini generali tale possibilità con riguardo alle spese di istruzione universitaria sostenute in un istituto universitario, privato o non, situato in un altro Stato membro.
Gli stessi articoli non ostano, invece, a una normativa nazionale che preveda la possibilità per i contribuenti di detrarre dall’imposta lorda le spese per i corsi di istruzione universitaria presso un istituto universitario situato in un altro Stato membro nel limite del tetto fissato per le spese corrispondenti previste per la frequenza di corsi analoghi tenuti presso l’università pubblica nazionale più vicina al domicilio fiscale del contribuente.

Questo è quanto ha stabilito, con la sentenza del 20 maggio resa nel procedimento C-56/09, la Corte di giustizia Ue in tema di libera prestazione dei servizi, analizzando la normativa italiana in materia e giudicandola pienamente conforme ai dettami europei.

La normativa italiana in materia prevede – all’articolo 15, n. 1, lett. e), del Tuir – che dall’imposta lorda si può detrarre un importo pari al 19% delle spese sostenute dal contribuente per frequenza di corsi di istruzione secondaria e universitaria, in misura non superiore a quella stabilita per le tasse e i contributi degli istituti statali, se non deducibili nella determinazione dei singoli redditi che concorrono a formare il reddito complessivo.
Con la circolare ministeriale 95/2000 è stato chiarito che le spese per la frequenza presso istituti o università private o straniere sono detraibili in misura non superiore a quella stabilita per tasse e contributi versati per le analoghe prestazioni rese da istituti statali italiani, e che ai fini della detrazione delle spese per frequenza all’estero di corsi universitari occorre fare riferimento alle corrispondenti spese previste per la frequenza di corsi analoghi tenuti presso l’università statale italiana più vicina al domicilio fiscale del contribuente. Con circolare 11/1987 è stato invece previsto, ai fini della detrazione degli oneri versati dagli studenti iscritti presso università private in Italia, l’assimilazione dei corsi di laurea tenuti in tali università ai corsi, uguali o similari, tenuti nell’università pubblica italiana esistente nella medesima città dell’università privata, o sita in una città della stessa regione.

La questione che ha portato alla decisione in commento dei giudici europei è insorta tra un cittadino italiano, che aveva frequentato un master post universitario all’estero, e l’amministrazione fiscale. Nella sua dichiarazione dei redditi, il contribuente detraeva dall’imposta lorda un importo pari al 19% delle spese sostenute per la frequenza di detto master, a titolo di oneri deducibili per spese di istruzione universitaria. L’amministrazione finanziaria non riteneva corretta tale detrazione e procedeva nei confronti del cittadino con l’invio di una cartella di pagamento. La controversia arrivava dunque al vaglio della Commissione tributaria provinciale competente per territorio che decideva di sospendere il procedimento e domandare alla Corte Ue se gli articoli 18 e 49 del Trattato Ce debbano essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale, come interpretata e applicata dalle autorità nazionali competenti, che esclude la detrazione dall’imposta lorda delle spese per la frequenza di corsi universitari in un altro Stato membro, mentre tali spese sono detraibili nell’ipotesi di corsi universitari tenuti in istituti stabiliti in tale Stato membro, o che consente la detrazione delle spese per la frequenza di tali corsi, ma entro il tetto massimo fissato per le spese corrispondenti previste per la frequenza di corsi analoghi tenuti nell’università pubblica nazionale più vicina al domicilio fiscale del contribuente.

I magistrati sovranazionali hanno in primo luogo sottolineato come una normativa nazionale che escluda, in termini generali, il diritto di detrarre dall’imposta lorda le spese per la frequenza di corsi di istruzione universitaria offerti in un altro Stato membro, mentre offre tale possibilità quanto alle spese per la frequenza di corsi di istruzione universitaria in tale Stato membro, comporta, per i contribuenti che frequentino istituti universitari all’estero, un onere fiscale più gravoso. Una tale normativa produrrebbe dunque l’effetto di dissuadere i contribuenti dal frequentare corsi d’istruzione universitaria negli istituti stabiliti in un altro Stato membro e costituirebbe un ostacolo alla libera prestazione dei servizi garantita dall’articolo 49 Ce.
Non è però certo questo il caso della normativa italiana, dal momento che il Tuir, come visto, prevede una detrazione dall’imposta lorda di un importo pari al 19% delle spese sostenute per la frequenza di corsi di istruzione secondaria e universitaria, in misura non superiore al tetto massimo stabilito per le tasse e i contributi degli istituti statali. Mentre le spese per la frequenza di corsi di istruzione in un altro Stato membro sono detraibili entro il tetto massimo fissato per le tasse e i contributi versati per la frequenza di corsi analoghi tenuti dall’università pubblica italiana più vicina al domicilio fiscale del contribuente, le spese sostenute in un istituto privato in Italia sono detraibili entro il tetto massimo fissato per le tasse e i contributi versati per la frequenza dell’università pubblica italiana nella medesima città o, in mancanza, nella stessa regione in cui ha sede detto istituto privato.

A giudizio del ricorrente, tali limiti colpiscono in maniera maggiore coloro che optano per un corso in un altro Stato membro rispetto a coloro che scelgono un corso in Italia.
La corte Ue però non la pensa così. Hanno osservato infatti i giudici che il soggetto che decide di frequentare un istituto universitario privato in Italia non ha a sua disposizione, come punto di riferimento per la determinazione del limite alla detrazione delle spese detraibili, la vasta gamma di istituti universitari pubblici nell’intero territorio nazionale, mentre i contribuenti che optano per un corso all’estero sarebbero vincolati, al contrario, dal limite rappresentato dal costo del corso similare reso dall’istituto pubblico più vicino al proprio domicilio fiscale.

In proposito, la Corte di giustizia ha già affermato che, onde evitare un aggravio finanziario eccessivo, uno Stato membro può limitare l’importo deducibile a titolo di spese d’istruzione a un importo determinato, corrispondente all’abbattimento fiscale concesso da detto Stato membro, tenuto conto di taluni valori a esso propri, per la frequenza di istituti di istruzione situati nel proprio territorio. Una normativa nazionale, dunque, che presenti differenze in relazione alla fissazione del limite applicabile alle spese detraibili, che incidono sia sui contribuenti che frequentano corsi di istruzione in Italia sia su quelli che esercitano il loro diritto alla libera circolazione per frequentare tali corsi in altri Stati membri, non può essere ritenuta violativa della libera prestazione di servizi di cui all’articolo 49 Ce e del correlato articolo 18, relativo alla libertà di circolare e di soggiornare sul territorio degli Stati membri. Infatti, hanno fatto notare i giudici europei, la detrazione delle spese di istruzione sostenute dal contribuente non è assoggettata, secondo la normativa italiana, a un regime fiscale diverso a seconda che il corso di istruzione frequentato si svolga in altri Stati membri o proprio in Italia. Nel caso di specie, infatti, il contribuente, frequentando un corso di insegnamento tenuto in un istituto universitario situato in un altro Stato membro, non si trovava necessariamente, quanto al regime delle detrazioni fiscali, in una situazione sfavorevole rispetto a quella in cui si sarebbe trovato se avesse frequentato un’università privata situata in Italia. Infatti, a seconda dell’università privata che avrebbe potuto scegliere in Italia, l’importo delle spese detraibili sarebbe stato più o meno elevato rispetto a quello calcolato con riferimento alle spese previste per la frequenza dell’università pubblica italiana più vicina al suo domicilio fiscale, vale a dire il punto di riferimento applicato per il corso di istruzione tenuto in altri Stati membri.

Ciò premesso, ha concluso la Corte, non è possibile discernere, dal punto di vista del regime fiscale istituito dall’articolo 15, n. 1, lett. e), del Tuir, un elemento tale da dissuadere i contribuenti residenti in Italia dal frequentare corsi di istruzione universitaria in istituti situati in un altro Stato membro. La normativa italiana, dunque, come interpretata e applicata dalle autorità competenti, nella parte in cui impone un tetto massimo alle spese detraibili entro i suddetti limiti quantitativi e territoriali, non costituisce affatto un ostacolo agli articoli 18 e 49 del Trattato Ce.
Mauro Di Biasi
Fonte: http://www.nuovofiscooggi.it/giurisprudenza/articolo/istruzione-universitaria-allestero-e-ok-la-normativa-fiscale-italiana