Pietro Colagiovanni *
E’ un film osannato dalla critica, tanto da aver vinto nel 2010, anno della sua uscita, la Palma d’Oro al festival di Cannes. Qualcuno parla addirittura di capolavoro della contemporaneità. Il regista, il cineasta thailandese Apichatpong Weerasethakul, reso più pronunciabile in occidente dal soprannome Joe, propone una meditazione sulla vita e sulla morte secondo la tradizione e la religione buddista, fondata sul concetto di reincarnazione. Il film ha una trama esile: alcuni parenti si recano dallo zio Boonme, proprietario agricolo colpito da una grave malattia ai reni.
In sostanza si tratta della narrazione degli ultimi giorni di Boonme ma è una narrazione che, partita con un realismo minimalista si trasmuta quasi subito in un realismo magico, con forti elementi metafisici e spirituali. Un Garcia Marquez del Sud est asiatico si potrebbe semplificare.
I temi sono, come si diceva, quelli della tradizione spirituale buddista ed in generale della sensibilità religiosa orientale, in cui la morte non termina la vita e l’universo nel complesso è un essere vivente che assume forme gancianti e correlate tra di loro. Ed il film è pieno di spiriti, di fantasmi, di richiami alla natura magica dei luoghi e dei tempi, magici anche essi. Oltre alla ovvia difficoltà culturale e alla diversa sensibilità di noi occidentali il problema di questo film, pregevole in molti suoi aspetti, è che non funziona nel suo insieme.
Gli spunti sono slegati tra di loro (il cameo con la principessa che si accoppia con il pesce gatto è una sorta di ablativo assoluto nel contesto della narrazione), i ritmi, volutamente lenti, non aumentano la spiritualità dell’insieme, gli attori sono tra l’ingenuo e il non so. Il film sostanzialmente non figura. Evoca tantissimo ma non riesce a portarci nella magia di una metafisica suggestiva. Resta lì, sospeso e non ti prende.
E se non ti prende cominci a guardare la parte più concreta dell’opera, noti i costumi abborracciati (le scimmie con le lucine ricordano i film americani pulp sugli alieni degli anni 60), la fotografia tutta giocata al risparmio, le luci quasi sempre disposte male. Se fosse davvero magic a tutto ciò lo spettatore rapito in una dimensione diversa non farebbe caso. Ma con tutto il rispetto per i critici osannanti questa opera, benchè ricca di spunti interessanti, di magico non ha davvero nulla.
Voto 2,5/5
*imprenditore, comunicatore, fondatore del gruppo Terminus
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