Come pagare le pensioni di domani

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di Mirko Cardinale

Le prospettive demografiche dell’Italia sono peggiori rispetto ad altri paesi anche considerando i flussi migratori. Ma se si riduce la popolazione attiva, potrebbero mancare le risorse previste per finanziare il sistema pensionistico, a meno di non introdurre un meccanismo ancora più esplicito che imponga il pareggio tra contributi pagati e prestazioni erogate. Necessario allora agire su altri fattori alla base della crescita economica di lungo periodo. Anche per far crescere il tasso di partecipazione al mercato del lavoro, tra le donne e tra i giovani.
La riapertura del dibattito sull’innalzamento dell’età pensionabile lascia aperti non pochi interrogativi. Se per contrastare derive alla greca, l’urgenza di una manovra correttiva come quella del DL 78 del 31 maggio 2010 si presenta come un’ipotesi largamente condivisibile, l’argomentazione con cui alcuni presentano un trend di sostenibilità della futura spesa pensionistica, adducendo a prova i consistenti tagli previsti fino al 2040, appare invece piuttosto discutibile.
IL LUNGO PERIODO
Il quadro ottimistico descritto, ad esempio, sulla base dei dati del 2008, con un saldo attivo tra contributi versati e pensioni erogate, che consentirebbe di finanziare addirittura la pubblica amministrazione, appare difficile da proiettare nel lungo periodo, in particolare se allo stesso tempo si descrive, come fa Massimo Mucchetti nell’editoriale del Corriere della Sera del 20 aprile 2010, “un’Italia in cui le persone con un posto retribuito sono meno che altrove e la crescita attesa è scarsa”.
Tutto il ragionamento muove dalla prospettiva di conservazione dello status quo, di quei meccanismi cioè che rendono pocodinamico il nostro paese alla stregua di un “lazy cat”, rubando la metafora a Carlo Bastasin. (1) Ma potrà l’Italia permettersi di conservare lo status quo nel lungo periodo? Questo è il vero interrogativo.
I risultati di una ricerca di Aviva Investors sulle prospettive di crescita mondiali di lungo periodo mostrano infatti che l’Italia è uno dei pochi paesi in cui ci si attende già nei prossimi dieci anni una contrazione della popolazione in età da lavoro (20-65 anni) stimata intorno allo 0,3 per cento annualizzato (vedi tabella 1). (2) Quindi, nel 2020 in Italia ci potrebbe essere circa un milione di potenziali lavoratori in meno. E teniamo conto che si tratta di elaborazioni basate sulle ultime proiezioni della Banca Mondiale, che già incorporano aspettative sul mantenimento di un consistente flusso migratorio, per cui i risultati potrebbero essere ancora più negativi se questo dovesse rallentare a seguito di politiche più restrittive o anche soltanto per la mancanza di opportunità d’impiego. Se si estende poi l’analisi al 2050, ovviamente con un maggiore margine d’incertezza, le proiezioni si attendono una contrazione della popolazione italiana talmente grande che nemmeno l’estensione della vita lavorativa a 74 anni riuscirebbe a mantenere la crescita della popolazione in età da lavoro in territorio positivo.
Se si riduce la popolazione attiva, potrebbero mancare le risorse previste per finanziare il sistema pensionistico, a meno di non introdurre un meccanismo ancora più esplicito che imponga il pareggio tra contributi pagati e prestazioni erogate. Quindi, l’Italia parte svantaggiata rispetto a paesi più giovani come gli Stati Uniti o il Regno Unito, per non citare l’India e il Brasile: se non sarà in grado di contrastare le pressioni demografiche agendo sugli altri fattori alla base della crescita economica di lungo periodo, potrebbe essere destinata a un avvenire, non di crescita scarsa, ma di crescita sotto lo zero. In un simile contesto, la “gobba” ipotizzata nella traiettoria della spesa pensionistica italiana fino al 2035 potrebbe essere molto più grave delle proiezioni della Commissione Europea, che ipotizzano un aumento del 2% del PIL (3). Quindi, ipotizzando tassi reali intorno al 2%, l’Italia dovrebbe crescere almeno intorno al 2.5% per stabilizzare la traiettoria del debito pubblico e della spesa previdenziale. E se i tassi richiesti dai mercati dovessero essere ancora più alti, la crescita dovrebbe essere ancora maggiore per far quadrare i conti.
DOVE INTERVENIRE
In primo luogo si dovrebbe quindi invertire il trend di crescita della produttività che a partire dal 1990 non ha superato l’1 per cento (vedi tabella 2) e dopo il 2000 è sceso vicino allo zero. Bisognerà favorire perciò l’internazionalizzazione del sistema-paese, e, da parte delle aziende, coniugare il modello, in passato vincente, della piccola e media impresa e dei distretti, con un maggior coordinamento della distribuzione nei mercati mondiali e con un impegno convergente nella ricerca e nell’innovazione, attività spesso onerose per la singola impresa, ma essenziali per il sistema nel suo complesso. Questo consentirebbe anche di arginare un altro punto debole del sistema-paese: il basso tasso di partecipazione al mercato del lavoro, non solo tra le donne ma anche tra i giovani. Dai risultati della ricerca di Aviva Investors (vedi tabella 2) emerge infatti che l’Italia con il 62,5 per cento ha uno dei tassi di partecipazione più bassi tra i paesi sviluppati, il che tuttavia segnala un’opportunità potenziale che paesi con profilo demografico simile, come la Germania e il Giappone, non hanno a disposizione. (4)
Si tratta, tra l’altro, di un fattore dinamico e flessibile, suscettibile anche in breve tempo di rapide accelerazioni (vedi l’esempio della Spagna e dell’Olanda nel grafico). Ma si tratta di un fattore su cui dovrebbero incidere le politiche economiche ed educative per indurre sostanziali cambiamenti culturali e di costume. (5) Bisognerà non solo incentivare il lavoro femminile come hanno fatto altri paesi, ma anche incentivare l’occupazione in tutte le fasce di età, sfatando il luogo comune che“l’occupazione dei vecchi non facilita il lavoro dei giovani”: in  realtà non si tratta necessariamente di un gioco a somma zero e una maggiore competitività del sistema paese potrebbe creare opportunità per entrambi. Ma  non saranno soltanto gli ultimi provvedimenti, che prevedono un aumento dell’età pensionabile per le lavoratrici pubbliche fino ai 65 anni oltre alla riduzione e slittamento delle finestre di uscita, a correggere quel preoccupante basso indice di partecipazione al lavoro che, insieme ad un tasso di produttività stagnante su cui la recente manovra non incide, rende il nostro sistema pensionistico a lungo termine insostenibile.

Fonte: http://www.lavoce.info/articoli/pagina1001776.html