Il film della settimana/ “Parasite” di Bong Joon-ho (S.Cor)

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Pietro Colagiovanni *

Ha vinto la Palma d’Oro al festival di Cannes ma ha vinto (primo film non in lingua inglese ad esserselo aggiudicato) anche l’Oscar come miglior film (oltre a miglior regia, miglior film internazionale e migliore sceneggiatura). Solo questo Palmares dovrebbe farci capire la portata e l’importanza del film (2019) del regista sudcoreano Bong Joon-ho. Il punto è capire se, e quanto, questa storica affermazione sia nel tempio del film impegnato e impegnativo (Cannes) sia nel tempio del film di intrattenimento (Hollywood) sia giustificata. La risposta è affermativa, perchè Parasite è un film di grandissima complessità. Un film che si trasmuta in commedia nella prima parte e in thriller,in dramma e in tragedia nella seconda, con un finale lirico e sognante. Quindi è effettivamente un film di intrattenimento, diretto in maniera magistrale e interpretato in maniera ancor più magistrale (uno dei protagonisti Song Kang-ho è semplicemente fantastico).

Ma forse è ancor di più un film di impegno, un film politico e sociale nonché un film filosofico. La trama è semplice: una famiglia molto povera (padre, madre e due figli giovani) con una serie di escamotage, stratagemmi ed espedienti riesce ad entrare in blocco nella vita di una famiglia straricca, come insegnanti, autista e governante. Per arrivare a questo però devono far licenziare chi occupava questi ruoli prima di loro, gente povera come loro. Con grande cinismo ci riescono, ma questo, nella migliore tradizione della tragedia greca, non resterà senza conseguenze. E saranno conseguenze tragiche, per tutti, inclusa la famiglia ricca che il regista descrive cinica a sua volta, superficiale, in cui i soldi e gli agi fanno scivolare e coprono tutte le loro fallacie morali ed esistenziali. Il film di Bong Joon-ho è un film di grandissima cerebralità, con strati di significati che si sovrappongono e si mescolano, ricoperti di tecniche di rappresentazione e di genere utili per attrarre il grande pubblico.

In primo luogo i luoghi, che sono stati realizzati e dimensionati apposta per il film: la casa, una vera e propria topaia, della famiglia povera e la grande casa di design, realizzata dall’architetto famoso (così la riporta il film) della famiglia ricca. Con una notazione in più. La casa della famiglia ricca diventa, con la grande camera con vista sul giardino ben curato, l’equivalente di un palcoscenico teatrale. Perchè il film ha spesso, anche se non sempre, i dialoghi, le inquadrature e i tempi del teatro. Perchè è commedia e tragedia e quindi la sua derivazione dai principali generi teatrali è evidente. Un altro aspetto sorprendente del film è l’attenzione, quasi l’ossessione direi, ai sensi, in particolare all’olfatto. E questo è un ulteriore colpo di genio di Joon-ho. L’olfatto infatti giocherà un ruolo di primissimo piano nell’evolversi tragico della vicenda ed è una connotazione costante del film. C’è poi il gusto, con il cibo e le bevande sempre in sottofondo.

C’è anche la fisicità del tatto, oltre ovviamente ai suoni e alla voce. Un film sinestetico si potrebbe dire, un film di umori e di rumori umani, un film in cui la dimensione basica, più animale dell’essere umano è centrale. C’è poi la dimensione sociale, con i ricchi e i poveri e i poveri disperati che lottano tra di loro. Ma non c’è quella politica perchè i poveri non combattono i ricchi ma fanno di tutto per essere come loro, perchè, come dice una delle protagoniste la ricchezza ti fa diventare gentile, è come un ferro da stiro che rende tutto liscio. La scena iniziale, con la disperata ricerca di un wifi gratis cui attaccarsi per messaggiare su whatsapp testimonia bene l’assenza di critica ideologica al sistema. Non c’è neanche la dimensione morale anche se qualcuno ce la vorrebbe vedere. Alla fine i poveri non sono molto diversi dai ricchi, non hanno scrupoli o qualità distintive particolari. Sono feroci quando sono stretti dal bisogno, sono umani e sensibili quando possono o quando vogliono, sono spietati quando è necessario esserlo.

La diversa disponibilità economica non comporta un profilo etico distinto. Ma allora in questo film c’è una chiave di lettura prevalente su tutta questa ingente se non enorme affastellarsi di tematiche? Secondo me sì anche se Bong Joon-ho è complesso di suo e, per la verità, ama la complessità e si diverte a mandare stimoli e messaggi anche contrastanti al suo pubblico. La chiave centrale di questo gran bel film (sia pure carente in qualche parte della sceneggiatura, specie nella fase iniziale) è la dimensione politica-filosofica. Cosa intendo dire? Il film è, a mio modestissimo avviso, un film marxista, anzi per evitare che lo si scambi con l’ideologia comunista (che come abbiamo visto non c’entra nulla) un film marxiano.

Tutto in Parasite dipende da un’unica cosa: i soldi. Quindi, per dirla nel linguaggio di Marx, tutto dipende dalla struttura, dall’economia. Un intuizione geniale del filosofo di Treviri che anche pensatori lontani anni luce da Karl Marx, come Benedetto Croce, riconobbero esatta. La struttura economica di una società plasma , modella tutto il resto, la cosiddetta sovrastruttura: la società, la religione ma anche la forma dei rapporti familiari, dei rapporti di amicizia, la sessualità, l’alimentazione, la vita quotidiana e le sue attività. E quando ci sono squilibri tra struttura e la sovrastruttura si crea attrito e prima o poi l’attrito si trasformerà in un terremoto, in una scarica di energia nel tentativo di riposizionarsi in un nuovo equilibrio. Il film è un’unica grande, plastica, a volte anche epica narrazione di come lo squilibrio economico, palese ed evidente, comporti sempre grandi squilibri che alla fine non possono che sfociare in un’eruzione drammatica, in violenza e tragicità, in distruzione e rovina.

Voto 4/5

*imprenditore, comunicatore, fondatore del gruppo Terminus

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