Pietro Colagiovanni *
Seconda opera di una potenziale pentalogia sulla vita in Afghanistan questo film della regista Shahrbanoo Sadat è stato presentato al festival di Cannes 2019. The Orphanage narra, attraverso gli occhi di un quindicenne Qodrat (interpretato da Quodratollah Qadri, già protagonista del primo episodio ambientato in un villaggio rurale afghano “Wolf and Sheep”) la vita in un orfanotrofio afgano in un momento storico molto particolare: la fine della occupazione sovietica e l’avvento del regime islamista talebano.
Ma la storia è situata sullo sfondo della narrazione quotidiana della vita nell’istituto, tra bulli che impongono le loro regole ai nuovi arrivati a episodi anche dolorosi di vita quotidiana a innamoramenti e invaghimenti, a gite nell’Unione Sovietica per conoscere la cultura del paese occupante (la visita alla tomba di Lenin dei ragazzini aggiunge un tocco storico quasi surreale alla narrazione). Ma la storia c’è in tutta la sua importanza ed esploderà in tutte le sue contraddizioni al termine del film. Durante si manifesta nell’abbigliamento (la T-shirt con Rambo, la maglia di calcio con impresso il nome di Maradona) nella Tv che parla del presidente filosovietico Najibullah in visita a Mosca nella scena di carro armato sovietico che salta su una mina nei pressi dell’orfanotrofio. La storia c’è ma la si percepisce solo di riflesso.
Un’altra caratteristica dell’opera sono le frequenti incursioni, ben caratterizzate, nel cinema indiano, con canti e balli e scazzottate in perfetto stile Bollywood. Si tratta dell’evasione da una realtà spesso dura, dello scioglimento di crudi nodi della vita quotidiana nella grande illusione del cinema. La delicata regia di Sadat ci induce, in un film particolarmente curato dal punto di vista etnografico e storico, in modo confortevole alla conoscenza della società afghana, della sua storia, della sua società, della sua cultura. Lo scopo, dichiarato dalla stessa regista, è quello di superare i tanti clichè negativi che accompagnano l’immagine di questo martoriato paese. L’orfanotrofio, statale, è gestito con competenza e il protagonista non vive male l’esperienza al suo interno.
Il responsabile della vita quotidiana dei giovani è una persona attenta e giusta, i ragazzi studiano e viene offerto loro un percorso di affrancamento dalla ignoranza e dalla miseria. E tutto questo grazie all’occupante sovietico. Mentre l’avvento degli islamisti è visto, dalla regista, come la fine della cultura e della sua gentilezza con i libri che vengono bruciati in via precauzionale appena si sa della vittoria talebana. In questo probabilmente il film rivela tutta la sua connotazione politica perchè alla fine si tratta di un film politico, benchè avvolto in una veste documentaristica. L’occupazione sovietica non era poi così male ed era fonte di un ordine sociale alla fine positivo, questo l’assunto della Sadat.
E come tutti gli assunti politici è discutibile, accoglibile, contestabile o rigettabile. Personalmente credo che l’Afghanistan sia una terra di antica civiltà e di raffinate tradizioni sociali e culturali. Ma nel contempo credo che l’essere sempre stato, negli ultimi secoli, una mera pedina nel gioco internazionale delle grandi potenze ne abbia fortemente indebolito la capacità di gestire autonomamente la propria vita e la propria società. Ed abbia portato a reazioni profonde e forse disperate come i talebani prima e il terrorismo internazionale di Osama Bin Laden poi.
L’Unione Sovietica portava un certo ordine, frutto anche di una burocrazia esasperata come anche un certo ordine è stato poi portato dagli Stati Uniti e dai loro alleati (Italia inclusa). Ma alla fine questo ordine apparente non ha sanato il problema di fondo dell’Afghanistan: essere stato negli ultimi secoli sempre strumentalizzato e sfruttato per fini politici internazionali, minando così in profondità la sua ricca storia, la sua vivace società, la sua profonda e raffinata cultura.
Voto 3,25/5
*imprenditore, comunicatore, fondatore del gruppo Terminus
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