Mobbing: quando la Giustizia potrebbe alleviare le sofferenze del lavoratore

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Dopo l’intensa vicenda personale di mobbing di Giovanni D’Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale “Tutela del Consumatore” di IDV e fondatore dello “Sportello Dei Diritti”, avevamo sentito e manifestato l’obbligo morale e civile della necessaria difesa dei più deboli, convinti che la Giustizia, quella terrena, un’utopia ormai per tanti, se ci si crede veramente, se si è testardi, prima o poi arriva se si continua a combattere, sino ad esperire ogni livello che il Nostro ordinamento nazionale e sovranazionale ci consente. Giustizia che dopo un lungo corso durato circa dieci anni pareva arrivata a destinazione anche per l’ing. Elisabetta Ferrante, dipendente di una multinazionale che con una storica sentenza della Corte di Cassazione si era vista riconoscere le proprie ragioni dopo una tormentatissima, per non dire tragica, storia personale di nudo e crudo “mobbing” e di altrettante drammatiche battaglie nelle aule giudiziarie del nordovest del Paese. Quasi mai, avevamo parlato, nonostante le decine, centinaia di denunce di singole tristi storie lavorative di vessazione e di violenza psicofisica che ci erano pervenute nel corso degli anni perché avevamo preferito agire nel silenzio dei tribunali che impone il rispetto del concetto stesso di Giustizia, ma la vicenda dell’ing. Ferrante non può non definirsi emblematica se non la si legge nell’ottica dell’ormai storica sentenza della Suprema Corte n. 22858 del 09.09.2008 che è stata persino oggetto di studio nella relazione tematica dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della stessa corte e che ha tracciato puntualmente i requisiti fattuali e di diritto affinché una condotta datoriale o del superiore gerarchico possa essere individuata come “mobbing” e quindi riconoscendone la sussistenza nei comportamenti subiti dalla lavoratrice ricorrente.
Una sentenza che sostanzialmente ha confermato, smentendo persino altre decisioni, che un fenomeno complesso che tanti lavoratori subivano, a volte in silenzio, a volte provando a rivolgersi alla Giustizia senza esito, che veniva chiamato con il termine anglosassone “mobbing” esisteva e poteva essere meritevole di tutela da parte delle corti italiane. Ora, dopo che i giudici di piazza Cavour hanno cassato la sentenza della Corte d’Appello di Torino che aveva rigettato le (ritenute poi) legittime istanze della funzionaria rinviando la causa alla contigua Corte d’Appello di Genova per esaminare l’intera vicenda alla luce dei principi stabiliti nella famosa decisione, l’ing. Ferrante è all’ultimo passo. Ora manca poco ed abbiamo l’obbligo di continuare a credere nella Giustizia che potrà, anzi deve restituire congruo ristoro alle sofferenze e al dolore patito dalla lavoratrice e dai suoi cari. Non possiamo, quindi, che auspicare una decisione esemplare anche in questo caso, affinché costituisca precedente persuasivo e da monito per tutti i datori di lavoro perché possano pensarci non una, ma cento volte prima di umiliare e vessare il proprio dipendente.