Permettere l’abbattimento del reddito significherebbe accordare risparmi d’imposta a chi ha violato le norme
La sanzione amministrativa (nel caso in esame, quella emessa dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato) conseguente alla violazione, da parte di una impresa, di uno specifico divieto non è connessa all’esercizio dell’attività imprenditoriale – sanzione che, invero, rappresenta l’effetto dell’esercizio scorretto dell’attività stessa – e non può qualificarsi come fattore produttivo; di conseguenza, non può essere considerata un costo deducibile dal reddito.
In questi termini si è espressa la Corte di cassazione, nella sentenza n. 5050 del 3 marzo.
I fatti di causa
Una società chiede il rimborso di imposta relativo alla somma pagata a titolo di sanzione pecuniaria irrogata dall’Antitrust – erroneamente inserita fra le variazioni in aumento del reddito imponibile – sostenendone la natura di componente passivo, deducibile ai sensi dell’articolo 109 del Tuir.
I giudici di merito, sia di primo che di secondo grado, rigettano la richiesta. In particolare, la Ctr afferma che, pur non contenendo il Tuir una norma che esplicitamente vieti la deducibilità delle sanzioni amministrative, la stessa sarebbe “in re ipsa”, trattandosi di sanzione avente natura punitiva di un illecito concorrenziale (e non risarcitoria, come sosterrebbe la ricorrente), ancorché commisurata al fatturato dell’ultimo esercizio precedente.
Avverso tale pronuncia la società propone ricorso per Cassazione nella considerazione che la sanzione in oggetto ha natura “avocativa” e non “punitiva”.
In altri termini, per la ricorrente la sanzione è correlata a una condotta, vietata dalla normativa Antitrust, posta in essere dall’impresa allo scopo di accrescere i propri ricavi, a svantaggio dei consumatori. Rispetto a tale illecita condotta, lo Stato – nel garantire, attraverso le sanzioni, il corretto svolgimento dell’attività economica – avoca a se i ricavi che vengono meno nell’esercizio successivo; circostanza che farebbe rientrare la sanzione fra le “sopravvenienze passive” nel senso indicato dall’articolo 101 del Tuir.
Inoltre, eccepisce la ricorrente, considerando che la deducibilità delle sanzioni non è presa in considerazione da alcuna norma tributaria, sarebbe applicabile, per analogia, la normativa sulla tassazione dei proventi illeciti, ovvero la tassazione su ciò che residua dopo i provvedimenti di sequestro o confisca (nel caso di specie, sul residuo di quanto pagato all’Antitrust a titolo di sanzione).
La decisione della Cassazione
La Cassazione rigetta il ricorso.
L’articolo 15 della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (legge “antitrust”), prevede che, in caso di violazione delle norme che garantiscono la conservazione del carattere competitivo del mercato, venga inflitta una sanzione pecuniaria “fino al 10 per cento del fatturato realizzato da ciascuna impresa o ente nell’ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida”.
Tale norma sanzionatoria, continua la Suprema corte, è in linea con la legislazione comunitaria in materia di violazioni delle regole di concorrenza del mercato (la sanzione deve comunque commisurarsi, secondo consolidata giurisprudenza comunitaria, non soltanto al fatturato e alle dimensioni dell’azienda, ma deve tener conto anche del comportamento, più o meno collaborativo, del soggetto sanzionato).
Nel diritto nazionale, tale sanzione viene determinata in misura variabile, anche se nei limiti del 10% dei ricavi dell’anno precedente, ma non si collega strettamente al reddito, né dell’anno in cui la violazione si è verificata né a quello degli esercizi precedenti, tanto da poter essere qualificata come “sopravvenienza passiva”.
Infatti, secondo la formulazione del citato articolo 15, non è necessario che il ricavo (cui è commisurata la sanzione) abbia concorso a formare il reddito nell’esercizio di competenza o che si riferisca, con certezza, a ricavi che abbiano concorso a formare il reddito in precedenti esercizi.
Il riferimento, contenuto nell’articolo 15 menzionato, all’esercizio precedente a quello in cui si è verificata la violazione, costituisce soltanto un parametro – sulla falsariga della normativa comunitaria – per determinare la misura della sanzione, la quale non necessita di un effettivo incremento di reddito (che potrebbe anche non esserci stato), ma ha soltanto funzione punitiva e deflativa (come deterrente di futuri possibili analoghi illeciti).
Da tali premesse, la Corte di cassazione giunge ad affermare che “pretendere pertanto che l’entità di tale sanzione costituisca un costo deducibile dal reddito imprenditoriale significherebbe neutralizzare interamente la ratio punitiva della penalità, trasformandola in un risparmio d’imposta, cioè in un premio per le imprese che abbiano agito in violazione delle norme antitrust”.
Considerazioni finali
In linea di massima, le sanzioni amministrative – i cui principi generali sono contenuti nella legge 689/1981 – non hanno un loro contenuto specifico; esse, infatti, vengono individuate in modo residuale, quali misure afflittive irrogate nell’esercizio di una potestà amministrativa.
In tale contesto normativo, occorre rimarcare la peculiarità delle sanzioni comminate dall’Antitrust, a seguito della sua attività di vigilanza, avente a oggetto le intese restrittive della libertà di concorrenza, gli abusi di posizione dominante e le operazioni di concentrazione di imprese con determinate caratteristiche.
Tali sanzioni, infatti, sono irrogate – in deroga alla legge 689/1981 – direttamente nei confronti dell’impresa e non della persona fisica che ha commesso la violazione; l’entità non è predeterminata in modo assoluto, nel senso che non sono previsti limiti edittali (minimo e massimo), ma è invece commisurata al fatturato dell’impresa; la sanzione non consegue direttamente alla commissione della violazione, ma alla persistenza ovvero alla particolare gravità della violazione stessa; infine, le somme incassate a tale titolo sono destinate a iniziative a vantaggio dei consumatori.
Queste peculiarità attribuiscono alle sanzioni irrogate dall’Antitrust natura punitiva – come precisato anche dal Consiglio di Stato (cfr sentenza 1671/2001) – che osta, in ogni caso, alla sua deducibilità. Senza dimenticare, infine, che alle somme pagate a titolo di sanzione non può essere riconosciuto un carattere strumentale all’attività svolta e, di conseguenza, non si configura il requisito “dell’inerenza” che rappresenta il presupposto necessario per poter dedurre le somme pagate.
Per completezza di trattazione, si fa presente che l’Amministrazione finanziaria già da tempo ha escluso la deducibilità delle sanzioni Antitrust nella determinazione del reddito di impresa (cfr risoluzione 89/2001, circolare 98/2000), anticipando, di fatto, l’orientamento espresso dalla Cassazione.
Marco Denaro
Fonte: http://www.nuovofiscooggi.it/giurisprudenza/articolo/la-punizione-non-diventa-premio-sanzioni-antitrust-non-deducibili