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La punizione non diventa premio. Sanzioni antitrust non deducibili

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Permettere l’abbattimento del reddito significherebbe accordare risparmi d’imposta a chi ha violato le norme
La sanzione amministrativa (nel caso in esame, quella emessa dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato) conseguente alla violazione, da parte di una impresa, di uno specifico divieto non è connessa all’esercizio dell’attività imprenditoriale – sanzione che, invero, rappresenta l’effetto dell’esercizio scorretto dell’attività stessa – e non può qualificarsi come fattore produttivo; di conseguenza, non può essere considerata un costo deducibile dal reddito.
In questi termini si è espressa la Corte di cassazione, nella sentenza n. 5050 del 3 marzo.

I fatti di causa
Una società chiede il rimborso di imposta relativo alla somma pagata a titolo di sanzione pecuniaria irrogata dall’Antitrust – erroneamente inserita fra le variazioni in aumento del reddito imponibile – sostenendone la natura di componente passivo, deducibile ai sensi dell’articolo 109 del Tuir.
I giudici di merito, sia di primo che di secondo grado, rigettano la richiesta. In particolare, la Ctr afferma che, pur non contenendo il Tuir una norma che esplicitamente vieti la deducibilità delle sanzioni amministrative, la stessa sarebbe “in re ipsa”, trattandosi di sanzione avente natura punitiva di un illecito concorrenziale (e non risarcitoria, come sosterrebbe la ricorrente), ancorché commisurata al fatturato dell’ultimo esercizio precedente.

Avverso tale pronuncia la società propone ricorso per Cassazione nella considerazione che la sanzione in oggetto ha natura “avocativa” e non “punitiva”.
In altri termini, per la ricorrente la sanzione è correlata a una condotta, vietata dalla normativa Antitrust, posta in essere dall’impresa allo scopo di accrescere i propri ricavi, a svantaggio dei consumatori. Rispetto a tale illecita condotta, lo Stato – nel garantire, attraverso le sanzioni, il corretto svolgimento dell’attività economica – avoca a se i ricavi che vengono meno nell’esercizio successivo; circostanza che farebbe rientrare la sanzione fra le “sopravvenienze passive” nel senso indicato dall’articolo 101 del Tuir.

Inoltre, eccepisce la ricorrente, considerando che la deducibilità delle sanzioni non è presa in considerazione da alcuna norma tributaria, sarebbe applicabile, per analogia, la normativa sulla tassazione dei proventi illeciti, ovvero la tassazione su ciò che residua dopo i provvedimenti di sequestro o confisca (nel caso di specie, sul residuo di quanto pagato all’Antitrust a titolo di sanzione).

La decisione della Cassazione
La Cassazione rigetta il ricorso.
L’articolo 15 della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (legge “antitrust”), prevede che, in caso di violazione delle norme che garantiscono la conservazione del carattere competitivo del mercato, venga inflitta una sanzione pecuniaria “fino al 10 per cento del fatturato realizzato da ciascuna impresa o ente nell’ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida”.

Tale norma sanzionatoria, continua la Suprema corte, è in linea con la legislazione comunitaria in materia di violazioni delle regole di concorrenza del mercato (la sanzione deve comunque commisurarsi, secondo consolidata giurisprudenza comunitaria, non soltanto al fatturato e alle dimensioni dell’azienda, ma deve tener conto anche del comportamento, più o meno collaborativo, del soggetto sanzionato).

Nel diritto nazionale, tale sanzione viene determinata in misura variabile, anche se nei limiti del 10% dei ricavi dell’anno precedente, ma non si collega strettamente al reddito, né dell’anno in cui la violazione si è verificata né a quello degli esercizi precedenti, tanto da poter essere qualificata come “sopravvenienza passiva”.

Infatti, secondo la formulazione del citato articolo 15, non è necessario che il ricavo (cui è commisurata la sanzione) abbia concorso a formare il reddito nell’esercizio di competenza o che si riferisca, con certezza, a ricavi che abbiano concorso a formare il reddito in precedenti esercizi.
Il riferimento, contenuto nell’articolo 15 menzionato, all’esercizio precedente a quello in cui si è verificata la violazione, costituisce soltanto un parametro – sulla falsariga della normativa comunitaria – per determinare la misura della sanzione, la quale non necessita di un effettivo incremento di reddito (che potrebbe anche non esserci stato), ma ha soltanto funzione punitiva e deflativa (come deterrente di futuri possibili analoghi illeciti).

Da tali premesse, la Corte di cassazione giunge ad affermare che “pretendere pertanto che l’entità di tale sanzione costituisca un costo deducibile dal reddito imprenditoriale significherebbe neutralizzare interamente la ratio punitiva della penalità, trasformandola in un risparmio d’imposta, cioè in un premio per le imprese che abbiano agito in violazione delle norme antitrust”.

Considerazioni finali
In linea di massima, le sanzioni amministrative – i cui principi generali sono contenuti nella legge 689/1981 – non hanno un loro contenuto specifico; esse, infatti, vengono individuate in modo residuale, quali misure afflittive irrogate nell’esercizio di una potestà amministrativa.

In tale contesto normativo, occorre rimarcare la peculiarità delle sanzioni comminate dall’Antitrust, a seguito della sua attività di vigilanza, avente a oggetto le intese restrittive della libertà di concorrenza, gli abusi di posizione dominante e le operazioni di concentrazione di imprese con determinate caratteristiche.
Tali sanzioni, infatti, sono irrogate – in deroga alla legge 689/1981 – direttamente nei confronti dell’impresa e non della persona fisica che ha commesso la violazione; l’entità non è predeterminata in modo assoluto, nel senso che non sono previsti limiti edittali (minimo e massimo), ma è invece commisurata al fatturato dell’impresa; la sanzione non consegue direttamente alla commissione della violazione, ma alla persistenza ovvero alla particolare gravità della violazione stessa; infine, le somme incassate a tale titolo sono destinate a iniziative a vantaggio dei consumatori.

Queste peculiarità attribuiscono alle sanzioni irrogate dall’Antitrust natura punitiva – come precisato anche dal Consiglio di Stato (cfr sentenza 1671/2001) – che osta, in ogni caso, alla sua deducibilità. Senza dimenticare, infine, che alle somme pagate a titolo di sanzione non può essere riconosciuto un carattere strumentale all’attività svolta e, di conseguenza, non si configura il requisito “dell’inerenza” che rappresenta il presupposto necessario per poter dedurre le somme pagate.

Per completezza di trattazione, si fa presente che l’Amministrazione finanziaria già da tempo ha escluso la deducibilità delle sanzioni Antitrust nella determinazione del reddito di impresa (cfr risoluzione 89/2001, circolare 98/2000), anticipando, di fatto, l’orientamento espresso dalla Cassazione.
Marco Denaro
Fonte: http://www.nuovofiscooggi.it/giurisprudenza/articolo/la-punizione-non-diventa-premio-sanzioni-antitrust-non-deducibili

UE: riunione in Calabria delle autorita’ di ”Audit”

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Domani ci sarà in Calabria la riunione delle autorita’ di ”Audit”, authority di controllo delle Regioni italiane sui fondi europei. In occasione del coordinamento nazionale delle Ada (Autorita’ di Audit), svoltosi a Roma il 4 febbraio scorso, e’ stato deciso infatti che sara’ la Regione Calabria ad ospitare la riunione di tutte le Audit delle regioni.
Alla riunione del 18 marzo parteciperanno anche rappresentanti dell’Igrue, Uver, Mef, Ministero del Lavoro e della Commissione Europea. La riunione servira’ per fare il punto sulle problematiche tecniche connesse alla chiusura della programmazione europea 2000-2006, e quindi si lavorerà anche sull’avvio ed i primi risultati della programmazione 2007-2013.
Fonte: http://www.regioni.it/newsletter/newsletter.asp?newsletter_data=2010-03-17&newsletter_numero=1539#art3

Corte dei conti: relazione sul risultato del controllo eseguito sulla gestione finanziaria dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato S.p.A.

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La Società Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato ha chiuso in attivo entrambi gli esercizi 2007 e 2008, con utili rispettivamente di 40,8 milioni di euro nell’esercizio 2007 e di 44,4 milioni di euro nell’esercizio 2008; in crescita sono pure i dati relativi al patrimonio netto, ammontante a 514,7 milioni di euro al 31 dicembre 2007 ed a 559,2 milioni al 31 dicembre 2008.
Nonostante i positivi risultati, la Corte avverte tuttavia che permane una situazione di incertezza delle produzioni che, incidendo sulle prospettive di crescita e sviluppo, potrebbe in un futuro più o meno ravvicinato dar luogo a difficoltà gestionali.
La quasi totalità delle attività produttive è rivolta alle Amministrazioni pubbliche, in una situazione di monopolio legale che da un lato offre ampie garanzie, ma dall’altro condiziona le prospettive di sviluppo, in quanto la produzione di valori e documenti di sicurezza, come pure l’attività di monetazione svolta dalla Zecca, sono legate ad una domanda rigida che non sempre consente una programmazione economicamente efficace.
In realtà le produzioni di che trattasi, anche quando assumono carattere industriale, diventando come tali economicamente rilevanti, vanno comprese tra le attività proprie ed esclusive dello Stato e rientrano nella sfera del pubblico: ciò indubbiamente giustifica il monopolio, ma rende il produttore I.P.Z.S. organo o articolazione,
in parte qua, dell’Amministrazione pubblica. Il fatto che il legislatore, nella sua scelta discrezionale, abbia optato per la forma giuridica “società per azioni” non fa venir meno tale qualità, tanto vero che, a parte l’autonomia gestionale, lo Stato è titolare di un controllo stringente che certamente incide sulle scelte operative della società.
La Corte osserva in proposito che il problema di fondo non sembra tanto quello della scelta della forma giuridica da adottare (legge oppure atto concessorio), dovendosi piuttosto privilegiare l’aspetto sostanziale costituito dall’esigenza di trovare un equilibrio tra le diverse, composite produzioni che la Società è chiamata ad effettuare: quello che deve effettuare in quanto organismo pubblico, quello che può effettuare per propria autonoma e libera determinazione ovvero previa autorizzazione dell’azionista unico (modulo confermato nell’atto di indirizzo strategico del Ministro dell’economia e delle finanze in data 3 settembre 2009) o, in un possibile futuro, della proprietà che risulterà titolare in sede di eventuale privatizzazione. E’ però evidente – soggiunge la Corte – che in questa ipotesi l’Istituto potrebbe perdere l’attuale configurazione di società in house, con la conseguente esigenza di trovare un modello nuovo, compatibile con il diritto comunitario.
Non va poi dimenticato – prosegue la Corte – che le norme che hanno assegnato all’Istituto un ruolo strategico hanno finora consentito lo sviluppo e la crescita di un patrimonio di cultura, arte, conoscenze scientifiche e professionalità tecniche che deve essere salvaguardato; questo aspetto è ben posto in evidenza nello stesso atto di indirizzo strategico del 3 settembre 2009 che, nell’imporre controlli assai rigorosi e penetranti, attribuisce pure alla Società un ruolo propedeutico, propositivo e di raccordo in vista degli adempimenti previsti nell’atto stesso, di cui la Società è resa direttamente responsabile.
Tenuto presente che il contesto economico generale è soggetto a variabilità anche critiche, la Società dovrà mettere a frutto le esperienze maturate ed aprirsi al mercato cogliendo gli aspetti positivi dell’evoluzione in corso. In particolare, il continuo progresso tecnologico nel settore dei documenti elettronici di sicurezza/identificazione richiederà un’attenta valutazione dei progetti più impegnativi, con riguardo al ritorno degli investimenti nel tempo e curando che lo sviluppo delle attività possa attuarsi in condizioni di equilibrio strutturale.
Fonte: http://webmaildomini.aruba.it/cgi-bin/webmail.cgi?cmd=item-1697&require_lock=true&java_email=true&fld=Inbox&encode_text=fld&utoken=info!40negozioterminus.it!40localhost!3A143_!7E2-efa010fbb13427260ce300_0

Rc auto e Decreto Bersani, pochi ne sfruttano i vantaggi

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Grazie al Decreto Bersani, un familiare convivente che stipula ex novo un contratto Rc auto può evitare di pagare un premio, di norma molto salato, in corrispondenza della classe di merito massima, visto che la Legge permette di stipulare il contratto per l’assicurazione della macchina acquisendo quella maturata da un altro familiare convivente. A ricordarlo è il Portale specializzato Assicurazione.it che in merito ha condotto un’indagine interpellando un campione di cinquecento automobilisti alle prese con la stipula contrattuale ex novo, oppure con il rinnovo di una assicurazione per la macchina.

Ebbene, a fronte di una diffusa conoscenza dei contenuti del Decreto Bersani, con una percentuale prossima al 74%, sono in pochi quelli che sfruttano il vantaggio relativo all’acquisizione della classe di merito di un familiare convivente. La percentuale media, in particolare, è pari al 7,5% con punte più elevate nelle Regioni del Sud, mentre al Nord spesso il dato è ben al di sotto della media.

La tendenza al Nord, in particolare, secondo quanto mette in risalto Assicurazione.it, è legata al fatto che già in età giovane si lascia la casa di mamma e papà e si va alla ricerca dell’indipendenza, con la conseguenza che il figlio o la figlia non è più a carico dei genitori e quindi non può sfruttare il vantaggio del trasferimento della classe di merito di un familiare convivente.

Secondo quanto dichiarato dal CEO del Portale specializzato Assicurazione.it, Alberto Genovese, fino a poco tempo fa gli italiani quasi sempre a scadenza di contratto Rc auto non si ponevano mai il “problema” di cambiare compagnia. Adesso, invece, con l’avvento dei comparatori online dei premi relativi ai contratti Rc auto proposti dalle compagnie le cose sono cambiate; la dimostrazione è data proprio dal Portale Assicurazione.it che ogni mese veicola la bellezza di oltre 140 mila preventivi.

Fonte: http://www.vostrisoldi.it/articolo/rc-auto-e-decreto-bersani-pochi-ne-sfruttano-i-vantaggi/26147/

Eni, 53 miliardi per aumentare la redditività

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Investimenti per 53 miliardi in quattro anni per raggiungere il traguardo dei due milioni di metri cubi idrocarburi estratti all’anno. Sono questi i numeri che saranno il faro del piano quadriennale di Eni, da qui al 2013. Fino a quella data il colosso del Cane a sei zampe stima una crescita della produzione del 2,5% all’anno che dal 2013 al 2016 rallenterà al 2%. Per arrivare all’estrazione di 2 milioni di barili all’anno, obiettivo già annunciato nel 2008 e poi ogni anno rimandato, occorrerà aspettare fino al 2013. L’obiettivo sarà raggiunto con una crescita focalizzata nelle aree in cui Eni vanta una presenza consolidata, Africa, regione del Caspio e Paesi Ocse, e in nuove aree a elevato potenziale tra cui in particolare l’Iraq.

Il piano quadriennale di Eni prevede la messa in esercizio da qui al 2013 di 41 nuovi campi estrattivi che porteranno alla produzione di circa 560mila barili di petrolio e gas quando tutti saranno attivi e a pieno regime estrattivo. La nuova produzione porterà profitti anche con un prezzo del barile intorno ai 40 dollari grazie ai risparmi dovuti alle economie di scala sui progetti di grande dimensione, ai costi di esplorazione e produzione tra i più bassi dell’industria e alla focalizzazione sulle attività convenzionali.

Al mercato, che ha dimostrato di non avere gradito il piano quadriennale spingendo in basso il titolo alla presentazione dei conti 2009 e delle strategie per il futuro, l’Amministratore delegato Paolo Scaroni ha risposto indirettamente. In una intervista il numero uno di Eni ha sottolineato che in termini di redditività l’azienda per gli azionisti si posiziona terza nella lista delle otto grandi aziende petrolifere a livello globale, a un passo da Total e meglio di Shell, Bp, Repsol, Exxon e Conoco.
Fonte: http://www.vostrisoldi.it/articolo/eni-piano-da-53-miliardi-per-aumentare-la-redditivita/26141/

Fondazione Vodafone Italia: opportunità di lavoro

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Scade il prossimo 31 marzo 2010 il termine per partecipare a “World of Difference“, un programma promosso dalla Fondazione Vodafone Italia che offre una interessante opportunità di lavoro nel sociale alla quale possono partecipare sia i dipendenti, sia i clienti del colosso delle telecomunicazioni. Il programma, nello specifico, prevede la possibilità per 40 tra clienti e dipendenti di esercitare un’attività lavorativa regolarmente retribuita nel mondo del Terzo Settore, ed in particolare con gli enti non profit sostenuti dalla Fondazione.

Per inviare la propria candidatura basta collegarsi al Portale www.fondazionevodafoneitalia.it e partecipare, quindi, alla possibilità di essere selezionati per sei mesi di lavoro nel sociale. Al fine di dare massima diffusione a tale iniziativa, la Fondazione Vodafone Italia ha avviato una campagna di comunicazione sui principali portali e siti Internet italiani.

La Fondazione Vodafone Italia, nata nel 2002, è una struttura completamente autonoma, ed ha finanziato sinora ben 280 progetti per quasi 46 milioni di euro. World of Difference è stato invece lanciato in via sperimentale nel 2008, ed ha come obiettivo quello di dare l’opportunità a personale qualificato che sia dipendente o cliente Vodafone, di “fare la differenza” per sei mesi.

Nel biennio 2008-2009, la Fondazione Vodafone Italia ha finanziato decine di progetti destinando quasi 7 milioni di euro a fronte di 23 mesi di lavoro prestati dai dipendenti, ed un incremento del 18% dei fondi che la Fondazione ha destinato al Sud Italia. Per conoscere la “Carta d’Identità” della Fondazione Vodafone Italia, basta cliccare qui, mentre direttamente dalla “Home Page” si può diventare fan, sostenitore o ambasciatore adottando uno dei progetti in corso della Fondazione, tra cui “Social Taxi” a Mazara del Vallo, “La Bottega dello Sport” a Milano e l’Happy Birthday Center a Roma.

Fonte: http://www.vostrisoldi.it/articolo/fondazione-vodafone-italia-opportunita-di-lavoro/26143/

Carovita in calo a febbraio, ma inflazione resta alta

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L’Istat, Istituto Nazionale di Statistica, ha confermato in data odierna, martedì 16 marzo 2010, la stima preliminare sui prezzi al consumo dello scorso mese; a febbraio 2010, infatti, i prezzi al consumo sono aumentati in media in Italia dell’1,2%, registrando così un calo rispetto al +1,3% registrato nel primo mese dell’anno. Ma secondo la Federconsumatori l’aumento dei prezzi, se confrontato, invece, con la caduta dei redditi, è ancora troppo alto, ragion per cui viene ribadita la necessità di mettere a punto interventi incisivi finalizzati al rilancio in Italia della domanda interna.
In particolare, l’Associazione, rivolgendosi al Governo, caldeggia innanzitutto il blocco delle tariffe che, tra l’altro, l’Esecutivo aveva promesso a cavallo tra il vecchio ed il nuovo anno; ma di questo provvedimento, pur tuttavia, ancora non vi è traccia. Inoltre, dal fronte delle speculazioni sui prezzi sono necessarie secondo la Federconsumatori sia maggiori verifiche, sia maggiori controlli.

D’altronde, l’Associazione stima che un’inflazione all’1,2% significa per le famiglie un esborso medio annuo in più per ben 360 euro rispetto al 2009; il tutto a fronte di redditi medi che, invece, di certo non sono aumentati dopo un 2009 che dal fronte del mercato del lavoro e della caduta del prodotto interno lordo è stato in Italia uno dei peggiori, se non il peggiore, da oltre sessanta anni.

Secondo i presidenti di Adusbef e Federconsumatori, Elio Lannutti e Rosario Trefiletti, il contesto sociale ed economico è tale che l’aumento dei prezzi rilevato dall’Istat non si può non spiegare con gli effetti speculativi visto che i consumi languono. Di conseguenza, le famiglie hanno bisogno urgente di recuperare potere d’acquisto, ragion per cui per la Federconsumatori serve la detassazione dei redditi delle famiglie che vivono di salari e di stipendi per almeno 1.200 euro annui.

Fonte: http://www.vostrisoldi.it/articolo/carovita-in-calo-a-febbraio-ma-inflazione-resta-alta/26131/

Le Entrate e la SIAE insieme contro l’economia sommersa

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In Umbria si intensifica scambio informativo tra gli enti, previsti anche nuclei di controllo congiunti
Si rafforza in Umbria la collaborazione tra Agenzia delle Entrate e SIAE. Il 15 marzo è stato firmato a Perugia un accordo fra il Direttore Regionale dell’Agenzia delle Entrate Gennaro Esposito e il Direttore della sede di Roma della SIAE Giuseppe Farina.

Il protocollo d’intesa permetterà di dare nuovo impulso nella regione al contrasto dell’economia sommersa nel settore dello spettacolo e dell’intrattenimento.

L’accordo porterà ad intensificare lo scambio di dati ed informazioni tra i due enti, favorendo un efficace controllo del territorio finalizzato a combattere i fenomeni evasivi e con essi la concorrenza sleale messa in atto da quegli operatori che non adempiono agli obblighi fiscali previsti.
Sul piano operativo, l’Amministrazione finanziaria e la SIAE provvederanno, tra l’altro, ad effettuare:
controlli nei confronti di quei soggetti, organizzatori e/o gestori di attività di spettacolo, che presentano maggiori criticità sotto l’aspetto fiscale e contributivo;
attività di rilevazione del “sommerso”;
riscontro degli obblighi sull’emanazione degli scontrini fiscali.
Prevista, infine, la costituzione di Nuclei di controllo congiunti Agenzia delle Entrate-S.I.A.E.
Fonte: http://www.nuovofiscooggi.it/dalle-regioni/umbria/articolo/umbria-entrate-e-siae-insieme-contro-l-economia-sommersa

Consulenza a costi sproporzionati. Prova di congruità al contribuente

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Per quanto sopra, l’onere della prova dell’inerenza dei costi, nonché della competenza, presupposti della deducibilità ex articolo 75 del Tuir (oggi, articolo 109), gravante sul contribuente anche per discendenza civilistica (articolo 2697 cc), in presenza di argomentata contestazione, ha ad oggetto anche la “congruità” dei costi stessi, intesa come “proporzionalità” tra la spesa sostenuta in relazione all’attività esercitata e il volume dei ricavi dichiarato (per l’Iva, cfr la fondamentale disposizione contenuta nell’articolo 19 del Dpr 633/1972). In altri termini, la valutazione della congruità dei costi è insita nei poteri di accertamento dell’Amministrazione finanziaria, la quale può procedere alla rettifica delle dichiarazioni osservando le regole dettate dal legislatore in materia di reddito di impresa, negando la deducibilità di parte di un costo, ove questo superi il limite al di là del quale non possa essere ritenuta la sua inerenza ai ricavi o, quanto meno, all’oggetto dell’impresa; ciò anche non ricorrendo irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici compiuti nell’esercizio d’impresa.

Rileva poi la Corte che, nella fattispecie sottoposta alla sua valutazione, non è tanto da valorizzare il fatto in sé (illecita destinazione delle risorse costituenti il costo) quanto piuttosto, anche secondo un giudizio emergente dall’id quod plerumque accidit:
la contestata “sproporzione” delle somme erogate rispetto a una pura e semplice attività consulenziale
la mancata prova da parte della contribuente, in presenza di tale rilievo, della loro adeguatezza, sotto il profilo dell’irragionevolezza in termini economico-quantitativi delle attività svolte.

A tal fine, l’esercizio del potere di rettifica delle dichiarazioni non rende anche necessario l’accertamento della nullità dei negozi giuridici attraverso i quali i fatti di gestione dell’impresa sono realizzati (Cassazione 12813/2000).

La Cassazione rileva ancora sul piano concreto che la correttezza dell’operato dell’Ufficio deriva dal raffronto eseguito in sede di accertamento tra il “fatto noto” – costituito dal contenuto della lettera acquisita agli atti – e la sproporzione delle somme imputate in bilancio rispetto alla remunerazione di un’attività di consulenza. Le risultanze di questo accadimento appaiono, quindi, agli occhi della Corte di legittimità, adeguatamente pertinenti rispetto all’oggetto dell’accertamento, anche considerando la continuità dei rapporti – regolati da un contratto di rappresentanza – intercorsi da tempo tra la società estera e la società contribuente, “da cui si evince la molteplicità degli incarichi conferiti e le modalità di corresponsione delle commissioni, subordinate alla clausola salvo buon fine”.
Anche riguardo a quest’ultimo elemento, ne è stata suggellata la legittimità, considerato che la Suprema corte si è espressa più volte sull'”idoneità” di elementi tratti da periodi di imposta diversi da quello oggetto dell’accertamento, indicando che, ai fini dell’accertamento del reddito d’impresa ai sensi dell’articolo 39, comma 1, lettera d), Dpr 600/1973, assumono rilevanza anche le emergenze presuntive che possono essere utilizzate come fonte di prova di attività non dichiarate, di guisa che una riscontrata, potenziale redditività di un’impresa in esercizi diversi da quelli oggetto dell’accertamento può essere suscettibile di fornire elementi indizianti ai fini della rettifica dei redditi relativi a tali ultimi esercizi e del realizzato conseguimento di utili maggiori di quelli dichiarati quando risulti incontestata l’oggettiva continuità dell’attività imprenditoriale (Cassazione 10656/2001).

Analoghe pronunce in materia di Iva
Anche ai fini Iva, la questione della detraibilità dell’imposta è stata affrontata più volte dalla Corte di cassazione e, quasi sempre, il giudice di legittimità ha concluso con l’affermare l’obbligatorietà del requisito dell’inerenza, precisando come tale requisito debba essere dimostrato dalla parte contribuente.

In particolare, con la sentenza 3706/2010, la sezione tributaria si è pronunciata in materia di condizioni necessarie per effettuare legittimamente una detrazione Iva, con particolare riferimento al requisito dell’inerenza del bene acquistato rispetto all’attività esercitata, e ha affermato che l’articolo 19, comma 1, Dpr 633/1972, pur consentendo all’acquirente di portare in detrazione l’imposta addebitatagli a titolo di rivalsa dal venditore, ancorché si tratti di acquisto effettuato nell’esercizio di impresa, richiede, oltre alla qualità d’imprenditore dell’acquirente, l’inerenza del bene acquistato all’attività imprenditoriale, intesa questa come strumentalità del cespite stesso rispetto a detta specifica attività. Secondo tale impostazione, che riprende un indirizzo giurisprudenziale già esistente (Cassazione 16730 e 11765 del 2008, 3022/2007), la norma, non introducendo una deroga ai comuni criteri di onere della prova, lascerebbe la dimostrazione di detta inerenza o strumentalità a carico dell’interessato. Nei casi di specie, in sostanza, la possibilità di effettuare la detrazione richiederebbe un quid pluris rispetto al solo requisito soggettivo (qualità di imprenditore in capo all’acquirente) costituito dall’inerenza o strumentalità del bene acquisito rispetto all’attività imprenditoriale.

La Corte di cassazione si è anche più volte pronunciata sul tema, di grande attualità, dell’indebita detrazione Iva relativa a costi fittizi, chiarendo che l’inesistenza di una determinata operazione deve essere provata dall’Amministrazione finanziaria, quale parte attrice sostanziale del rapporto tributario dedotto davanti all’organo giurisdizionale, ma che conseguentemente spetta all’Erario l’onere di dimostrare la falsità della fattura (intesa quale documento attestante l’effettuazione dell’operazione). Tuttavia, laddove siano dedotti indizi idonei a confutare la veridicità dei documenti contabili, spetterà al contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni imponibili (Cassazione 15395/2008), cosiddetta “prova di estraneità” (cfr Cassazione 17377/2009).

In proposito, il problema che sta impegnando in modo ricorrente la giurisprudenza concerne il tema della prova della falsità delle fatture. Su questo versante si segnala la pronuncia 4013/2010, nella quale la Suprema corte ha aggiunto al precedente dictum l’affermazione che nello specifico contesto il diritto alla detrazione non sorge immancabilmente per il solo fatto dell’avvenuta corresponsione di imposta formalmente indicata in fattura, richiedendosi, altresì, che l’imposta sia effettivamente dovuta, cioè corrispondente a operazioni effettivamente soggette a Iva (Cassazione 735/2010; cfr anche Cassazione 13916/2006 e 11084/2008).
Salvatore Servidio

Fonte: http://www.nuovofiscooggi.it/giurisprudenza/articolo/consulenza-a-costi-sproporzionati-al-contribuente-la-prova-di-congruita

Trasmissione dei dati Ici – Iscop

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L’art. l del D.M. 10 dicembre 2008 ha stabilito che i comuni, gli agenti della riscossione, la società Poste Italiane S.p.A. e gli affidatari del servizio di riscossione dell’imposta comunale sugli immobili (ICI) e dell’imposta di scopo per la realizzazione di opere pubbliche (ISCOP) devono trasmettere con flusso telematico al Dipartimento delle finanze – Direzione federalismo fiscale, i dati relativi ai versamenti effettuati a titolo di ICI e di ISCOP, nonchè a titolo di relativi sanzioni ed interessi.
A partire dal 2009, i dati devono essere trasmessi al Dipartimento delle finanze, utilizzando in via provvisoria il nuovo canale telematico ENTRATEL, reso disponibile allo scopo entro le seguenti date:
• il 31 ottobre dell’anno di riferimento, per i versamenti effettuati fino al 31 luglio dello stesso anno;
• il 31 marzo dell’anno successivo a quello di riferimento, per i versamenti effettuati entro il 31 gennaio dello stesso anno.
Per la trasmissione, a partire dal 22 marzo 2010 ed entro il successivo 31 marzo 2010, del secondo flusso di dati dei versamenti d’imposta relativi all’anno 2009 nonchè delle sanzioni ed interessi anche se relativi ad annualità precedenti riscossi fino al 31 gennaio 2010 è disponibile, a partire dal 15 marzo 2010, la seconda versione del software per la preparazione dell’invio al Dipartimento delle Finanze.
Per risolvere eventuali problemi di tipo tecnico e funzionale è istituito un servizio di assistenza tramite Call & Contact Center al numero verde 800.863.116 attivo dal lunedì al venerdì (festivi esclusi) dalle ore 8.00 alle ore 18.00.
Fonte: http://www.finanze.gov.it/export/finanze/Per_conoscere_il_fisco/Fiscalita_locale/Trasmissione_dei_dati_Ici-Iscop/index.htm