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Europa 20: un sostantivo, 
tre aggettivi e un progetto

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Crescita intelligente, sostenibile e inclusiva il cui obiettivo è investire il 3% del prodotto interno lordo in ricerca e sviluppo
“Europa 20. Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva”. La comunicazione della Commissione europea del 3 marzo delinea gli obiettivi da raggiungere entro i prossimi 10 anni: dare impulso all’innovazione e alla ricerca, promuovere l’efficienza energetica, migliorare le politiche occupazionali e di inclusione sociale. All’interno di ogni singolo ambito d’azione, la Commissione assegna alla fiscalità un ruolo di primo piano per la realizzazione delle strategie elaborate. Strategie che attendono adesso l’approvazione di Consiglio e Parlamento europeo.

Un’ economia basata sulla ricerca e l’innovazione
”L’Unione dell’innovazione” rappresenta il progetto guida per aumentare gli investimenti nel settore della ricerca e dello sviluppo. Obiettivo, investire il 3% del Pil in ricerca e sviluppo, incrementando gli investimenti da parte delle imprese, grazie ad accessi più facili ai finanziamenti e all’adozione di incentivi fiscali e strumenti finanziari ad hoc.
Altro obiettivo, ridurre il tasso di abbandono scolastico dal 15% attuale al 10% e portare il numero dei laureati tra i 30 e 34 anni dal 31% ad almeno il 40%. “Youth on the move” e “Un’agenda europea del digitale” altre due iniziative finalizzate rispettivamente, a migliorare il sistema scolastico e facilitare l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, e a creare, grazie alla diffusione di internet ad alta velocità, una rete unica digitale a uso di aziende e singoli consumatori.
Politiche ambientali in primo piano
 “Un’Europa efficiente sotto il profilo delle risorse” e “Una politica industriale per l’era della globalizzazione”, le iniziative adottate per raggiungere altri due standard prefissati dalla Commissione: ridurre le emissioni di gas a effetto serra del 20% rispetto al 1990 (o addirittura al 30% se si verificano le condizioni adatte), migliorare del 20% l’efficienza energetica e condurre al 20%  la quota di fonti di energia rinnovabili. 
In questo campo, un ruolo centrale è assegnato alle politiche fiscali che, attraverso un sistema di incentivi/disincentivi, può condizionare sia i metodi di metodi di produzione sia le abitudini di consumo (come ad esempio, le agevolazioni fiscali per la riqualificazione energetica degli edifici o tasse che colpiscono l’uso di mezzi di trasporto inquinanti).
Lavoro e formazione 
Incrementare il tasso di occupazione della popolazione di età compresa tra i 20 e i 64 anni dall’attuale 69% ad almeno il 75%. Con il progetto “Un’agenda per nuove competenze e nuovi posti di lavoro” la Commissione europea cerca di intervenire con strumenti idonei per migliorare il mercato del lavoro attraverso programmi per la mobilità lavorativa e la formazione permanente. 
Per le imprese, invece, in particolare per le Pmi, l’Ue propone di alleggerire il carico amministrativo e fiscale. La Commissione sottolinea che “gli Stati membri dovrebbero piuttosto cercare di trasferire il carico dalle tasse sul lavoro alle tasse energetiche e ambientali, nell’ambito di un sistema fiscale più verde”. 
L’iniziativa “Piattaforma europea contro la povertà”, infine, detta le linee guida per adeguate politiche di inclusione sociale. Obiettivo, la riduzione del 25% del numero di persone che in Europea vivono al di sotto delle soglie di povertà.
Alessandra Gambadoro
Fonte: http://www.nuovofiscooggi.it/dal-mondo/articolo/europa-20-un-sostantivo-tre-aggettivi-e-un-progetto-la-fiscalita-al-centro

Lotta all’evasione: in Emilia nuove alleanze con i comuni

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Parteciperanno all’accertamento fornendo informazioni utili su comportamenti evasivi ed elusivi
I Comuni di Castelnovo di Sotto (RE), Alseno (PC) e Longiano (FC) decidono di scendere in campo, a fianco dell’Agenzia delle Entrate, aderendo al protocollo d’intesa tra Direzione Regionale e Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (ANCI) per contrastare il fenomeno dell’evasione e dell’elusione fiscale in Emilia-Romagna.

Salgono così a 183 i Comuni della regione che hanno concretizzato la propria adesione. Nel dettaglio gli enti “caccia-evasori” sono 31 nel modenese, 25 nel piacentino, 23 in provincia di Reggio Emilia, 22 nella provincia di Forlì-Cesena, 21 nel bolognese; a quota 18 si attestano quelli del ferrarese seguiti dai Comuni del ravennate e del parmense (17); chiude Rimini con 9 adesioni.

Gli enti partecipano all’attività di accertamento fiscale, fornendo informazioni utili su quelle posizioni soggettive in grado di rivelare con chiarezza comportamenti evasivi ed elusivi da parte dei cittadini.

Per lo svolgimento di quest’attività d’indagine il Comune ha diritto al 30% delle maggiori imposte, interessi e sanzioni riscosse a titolo definitivo in seguito all’accertamento effettuato dall’Agenzia.
Fonte: http://www.nuovofiscooggi.it/dalle-regioni/emilia-romagna/articolo/lotta-evasione-emilia-nuove-alleanze-con-i-comuni

Credito Iva contestato in parte. 
Rimborso “congelato” solo a metà

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L’interruzione della prescrizione scatta esclusivamente in relazione alle poste contabili oggetto della lite
Il ricorso contro l’avviso di rettifica Iva “parziale”, emesso dall’ufficio competente, non comporta l’interruzione della prescrizione del diritto al rimborso sulla parte del credito non oggetto di contestazione da parte del Fisco. Questo, in sintesi, il contenuto della sentenza n. 3827/2010 della Corte di cassazione.

La vicenda
La pronuncia della Corte si riferisce a una rettifica parziale del credito Iva richiesto a rimborso da una società nella dichiarazione presentata per l’anno d’imposta 1989.
Il conseguente ricorso veniva accolto dalla Ctp. Decisione confermata dalla Commissione tributaria regionale, con una sentenza che passava in giudicato nel 2000.
Nel 2003 la società presentava un’istanza di rimborso per l’intero ammontare del credito Iva indicato nella dichiarazione relativa all’anno d’imposta 1989. A seguito di tale istanza, l’ufficio emetteva un provvedimento di diniego del rimborso relativo al credito Iva non oggetto di rettifica e, quindi, della successiva controversia.
Il provvedimento di diniego era motivato dalla scadenza del termine di prescrizione decennale del diritto al rimborso, ai sensi dell’articolo 2946 del codice civile.

Da qui, un nuovo contenzioso, con al centro il suddetto provvedimento di diniego.

La pronuncia della Cassazione
La Corte ha evidenziato, prima di tutto, come l’eccedenza detraibile (costituita dalla differenza tra l’ammontare dell’Iva su acquisti e importazioni, aumentato dei versamenti periodici effettuati, e l’Iva sulle cessioni di beni e prestazioni di servizi imponibili) costituisca un importo unitario solo da un punto di vista aritmetico, in quanto ogni singola operazione di cessione e acquisto rappresenta una “posta contabile” autonoma.

Il processo tributario è, inoltre, caratterizzato da una domanda giudiziale il cui oggetto è delimitato dal petitum e dalla causa petendi posta a suo fondamento.
Nella lite in esame, l’oggetto del giudizio era rappresentato dalle sole “poste contabili” disconosciute dall’Amministrazione finanziaria mediante l’avviso di rettifica Iva.

Di conseguenza, l’articolo 2943 del codice civile, in base al quale “la prescrizione è interrotta dalla notificazione dell’atto con il quale si inizia un giudizio”, deve applicarsi esclusivamente alle poste contabili costituenti oggetto della controversia.
Viceversa, per le operazioni non contestate dall’Amministrazione finanziaria, il termine di prescrizione continua a decorrere senza subire interruzioni.

La Cassazione ha motivato la propria decisione precisando che l’istituto giuridico della prescrizione ha lo scopo di dare certezza ai rapporti giuridici, mediante l’estinzione di un diritto non esercitato per un determinato periodo di tempo. Quindi, tutte le disposizioni contenute nel codice civile o in altre leggi che prevedano l’interruzione dei termini prescrizionali hanno carattere eccezionale, e, perciò, non sono suscettibili di applicazione oltre i casi e i tempi in esso considerati.

Osservazioni conclusive
La Corte ha sottolineato la necessità dell’osservanza, nell’ambito del processo tributario, dei limiti dell’oggetto della controversia (petitum e causa petendi).

I giudici hanno, infatti, definito l’oggetto del giudizio, limitandolo alle sole “poste contabili” Iva rettificate da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Pertanto, la presentazione di un ricorso avverso un provvedimento di rettifica parziale di un credito Iva costituisce atto interruttivo dei termini prescrizionali esclusivamente in relazione al diritto di credito rivendicato dal contribuente sulle “poste contabili” rettificate in precedenza dall’ufficio.

Al contrario, per la restante quota di credito chiesto a rimborso, non oggetto della domanda giudiziale, il diritto del contribuente non beneficia dell'”allungamento” del termine ordinario decennale di prescrizione, in quanto non trova applicazione l’articolo 2943 del codice civile.

Si ritiene, infine, opportuno sottolineare che l’accoglimento del ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate si fonda sulla circostanza che l’eccedenza detraibile Iva deve essere considerata unitariamente solo per giungere alla determinazione dell’importo spettante. Viceversa, in sede di accertamento e di eventuale contenzioso, ogni singola operazione di cessione e di acquisto rilevante ai fini Iva può essere oggetto di autonoma valutazione.
Giovanni Bagni

Fonte: http://www.nuovofiscooggi.it/giurisprudenza/articolo/credito-iva-contestato-parte-rimborso-congelato-solo-a-meta

Adesione al condono? Partita chiusa
per i debiti, ma non per i crediti

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Un rimborso Iva “sospetto” non trova la strada spianata soltanto per effetto del consenso alla sanatoria
Il condono tombale del 2002 non esclude il potere del Fisco di contestare il credito. Se, a fronte di una richiesta di rimborso Iva, l’ufficio ritenga inesistente il diritto a conseguirlo, non è tenuto – per automatico effetto del condono – a procedere al rimborso, né gli è inibito l’accertamento diretto a dimostrare l’inesistenza del diritto. È il principio espresso dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 5586 dell’8 marzo, con la quale ha accolto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria ribaltando completamente i giudizi di merito.

La vicenda
A seguito di notifica a una società di capitali di un avviso di accertamento Iva, conseguente a verifica della Guardia di Finanza, nella quale si contestava l’effettuazione di operazioni fittizie, il relativo ricorso veniva accolto dalla Commissione tributaria provinciale. La situazione processuale, così determinata, non veniva a mutare per effetto del proposto appello, in ragione del fatto che la Commissione tributaria regionale confermava l’annullamento del diniego dell’ufficio a un preteso rimborso Iva avanzato dalla società contribuente (in particolare la curatela dell’impresa ormai fallita aveva sostenuto che in presenza di condono tombale regolare, ex articolo 9 legge 289/2002, il Fisco dovesse automaticamente rimborsare l’imposta, al di là dei sospetti dell’esistenza di fatture false).

Il rigetto dell’appello approda in Cassazione, in forza di due motivi con i quali l’ente impositore:
1. deduce la violazione di legge, censurando l’affermazione secondo cui, ai sensi dei commi 9 e 10 dell’articolo 9 della legge 289/2002, l’Amministrazione non potrebbe contestare i crediti indicati nella dichiarazione di condono tombale
2. censura la sentenza di merito, sotto il profilo del vizio di motivazione, quanto all’affermazione secondo la quale l’avviso di accertamento impugnato sarebbe illegittimo a causa della mancata allegazione dei documenti che giustificano i presupposti di fatto o le ragioni giuridiche per ritenere inesistenti le fatture emesse dalla società.

Profilo normativo
Il richiamato articolo 9 stabiliva che la definizione automatica degli anni di imposta pregressi, limitatamente a ciascuna annualità, rendeva definitiva la liquidazione delle imposte risultanti dalla dichiarazione con riferimento alla spettanza di deduzioni e agevolazioni indicate dal contribuente o all’applicabilità di esclusioni. Aggiungeva, poi, che la definizione automatica non modifica l’importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate ai fini delle imposte sui redditi e relative addizionali, dell’Iva nonché dell’Irap.
Il comma 10, alla lettera c), stabiliva che il perfezionamento della procedura di definitività del rapporto pendente valeva anche nell’ipotesi di utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti (il che comporta, tra l’altro, l’esclusione della punibilità per i reati tributari di cui agli articoli 2, 3, 4, 5, e 10 del Dlgs 74/2000).

La decisione sul rimborso in presenza di condono
La Suprema corte si è trovata a decidere se, a norma dell’articolo 9, comma 9, della legge 289/2002, la definizione automatica rende risolutiva la liquidazione delle imposte risultanti dalla dichiarazione, non modificando l’importo dei rimborsi e dei crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate ai fini, in questo caso, dell’Iva.

Il Collegio ha ritenuto il ricorso meritevole di accoglimento nella duplice articolazione delle censure che investono sia la disciplina normativa applicabile alla fattispecie sia la struttura motivazionale della sentenza, e osserva, a tal fine, che la giurisprudenza di legittimità ha già affermato che il condono fiscale, se da un lato comporta che nessuna modifica dei rapporti originari di rimborsi o crediti possa essere determinata dalla definizione automatica, dall’altro non sottrae all’ufficio il potere di contestare il credito. In altri termini, il condono elide in tutto o in parte, per sua natura, il debito fiscale, ma non opera sui crediti che il contribuente può vantare nei confronti del Fisco, i quali restano soggetti all’eventuale contestazione da parte dell’ufficio (Cassazione, sentenza n. 375/2009).

Inoltre, la Cassazione riconferma l’assunto che, in generale, nell’ipotesi di operazioni inesistenti, in relazione alle quali sia stato chiesto il rimborso dell’Iva – che l’ufficio ha motivo di ritenere in realtà non versata – l’Amministrazione finanziaria non è tenuta, per automatico effetto del condono, a procedere al rimborso, né gli è inibito l’accertamento diretto a dimostrare l’inesistenza del diritto a conseguirlo.
Tale conclusione, del resto conforme a quanto ritenuto anche dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n. 340/2005, non è impedita dalla disposizione, contenuta nella norma invocata, per cui “La definizione automatica non modifica l’importo degli eventuali rimborsi e crediti derivanti dalle dichiarazioni presentate ai fini … dell’imposta sul valore aggiunto”. In sostanza, la disposizione recata dall’articolo 9 deve essere interpretata nel senso che nessuna modifica di tali importi può essere determinata dalla definizione automatica, ma non in quello di sottrarre all’ufficio il potere di contestare il credito per accertata inesistenza dell’operazione commerciale da cui esso deriverebbe (Cassazione, sentenze nn. 3682/2007, 6504/2007 e 18650/2008).

Più specificamente, l’elaborazione giurisprudenziale, del tutto pacifica al riguardo, ha chiarito che la presentazione dell’istanza relativa alla definizione automatica preclude al contribuente ogni possibilità di rimborso per le annualità d’imposta definite in via agevolata, ivi compreso il rimborso di imposte asseritamente inapplicabili per assenza del relativo presupposto. Il condono, infatti, in quanto volto a definire transattivamente la controversia in ordine all’esistenza di tale presupposto, pone il contribuente di fronte a una libera scelta fra trattamenti distinti, quali coltivare la controversia nei modi ordinari, conseguendo eventualmente il rimborso delle somme indebitamente pagate, o corrispondere quanto dovuto per la definizione agevolata, senza possibilità di riflessi o interferenze con quanto eventualmente già corrisposto in via ordinaria (Cassazione, sentenze nn. 14828/2008, 2701/2008 e 3682/2007).

Da ultimo, la Cassazione ha chiarito anche un altro aspetto fondamentale in tema di rimborso Iva dell’eccedenza, questa volta legato alla prescrizione del credito del contribuente, affermando sostanzialmente che l’impugnazione giurisdizionale delle sole “poste” disconosciute dall’ufficio non produce effetti interruttivi e sospensivi su quelle non contestate (sentenza n. 3827/2010).
La ratio di tali conclusioni risiede nel semplice fatto che il condono tombale e il rimborso Iva viaggiano su binari differenti, nel senso che il contribuente non può chiedere all’Amministrazione la restituzione dell’imposta a fronte di un’adesione alla sanatoria del 2002. Tanto più, se la richiesta riguarda operazioni mai poste in essere.

La decisione sulle operazioni fraudolente
In riferimento al secondo motivo, la Corte lo ritiene fondato poiché, in materia di Iva, in ipotesi di fatture ritenute relative a operazioni inesistenti, la prassi giurisprudenziale ha stabilito che grava sull’Amministrazione finanziaria l’onere di provare che le operazioni, oggetto delle fatture, in realtà, non sono state mai poste in essere. Tuttavia, se l’ufficio, così come previsto dall’articolo 54, comma 2, del Dpr 633/1972, fornisce elementi idonei a confermare l’inattendibilità della documentazione aziendale che intende contestare (ad esempio, l’inesistenza delle operazioni documentate con fatture), si ribalterà sul contribuente l’onus probandi (articolo 2697, codice civile) di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni imponibili infirmate (Cassazione, sentenze nn. 15395/2008 e 21953/2007). In virtù dell’inversione legale dell’onere della prova, al contribuente spetterà il compito di attestare la commercialità dell’operazione, intesa cioè come reale passaggio dei beni dal soggetto attivo a quello passivo del rapporto tributario (Cassazione, sentenza n. 18650/2008).

Questo il principio generale convalidato dalla Corte di cassazione in materia, segnato peraltro dalla continuità di un profluvio di pronunce nelle quali si è innestato anche il solco interpretativo tracciato dalla Corte costituzionale nella menzionata ordinanza n. 340/2005.
Nella concretezza del caso in esame, considerato che gli elementi indiziari per sostenere la fittizietà delle operazioni emergevano già dall’istruttoria cristallizzata nel verbale di constatazione, conosciuto dalla società sin dalla conclusione della stessa istruttoria per esserle stata consegnata copia, ne discende che nessun ulteriore onere probatorio incombeva sull’ente impositore procedente, spettando invece alla società la prova inversa dell’effettiva esistenza delle operazioni in contestazione. Tuttavia, poiché la prova di estraneità non è stata data, si è venuta a determinare l’inevitabile soccombenza del conribuente.

Circa l’incompatibilità tra il condono e il rimborso, dalla sentenza n. 5586/2010 si può trarre l’insegnamento, indirettamente emergente dalla motivazione, che la finalità della sanatoria, in particolare nella forma automatica appuntata nell’articolo 9 della legge 289/2002, era quella di chiudere la partita con l’Erario per propri debiti ma non per i crediti. In caso contrario si sarebbe arrivati ad assentire un sindacato (in)teso a sostenere che l’effetto sanante del condono si sarebbe verificato anche su somme a credito inesistenti in quanto frutto di fatture false, facenti scudo a operazioni mai poste in essere, ma dovute al contribuente in nome della “definitività” dell’istanza prodotta.

Per la Cassazione, legittimare le tesi difensive del contribuente, avrebbe aperto a una seconda funzione del condono che, oltre a quella di sanare i debiti, avrebbe finito anche per cristallizzare i crediti vantati nei confronti dell’Erario.
Salvatore Servidio

Fonte: http://www.nuovofiscooggi.it/giurisprudenza/articolo/adesione-al-condono-partita-chiusaper-i-debiti-ma-non-i-crediti

Gestire il contenzioso tributario:
istruzioni per un “uso” razionale

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L’Agenzia delle Entrate dà indicazioni agli uffici per ridurre il numero dei giudizi pendenti nei gradi di merito
Nello spirito di collaborazione che da sempre caratterizza i rapporti dell’Agenzia con il Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, l’Amministrazione finanziaria rinnova ai propri uffici una serie di “raccomandazioni utili” per una migliore gestione del contenzioso tributario.
Scopo primario, che si prefiggono entrambe le strutture, è quello di arrivare a soluzioni condivise per ridurre il numero dei giudizi pendenti nei diversi gradi di merito e, nel contempo, giungere a una migliore organizzazione del lavoro.

Per realizzare l’obiettivo, le direzioni regionali e gli uffici delle Entrate sono invitati a mantenere uno stretto contatto con presidenti delle Commissioni tributarie provinciali e regionali al fine di formare un calendario delle udienze che tenga conto anche delle esigenze delle strutture territoriali, così da consentire, nel limite del possibile, che nell’ambito di un’udienza si concentrino le cause in cui è richiesta la presenza dello stesso ufficio ed evitare la contemporaneità della trattazione di udienze riguardanti il medesimo ufficio in più sezioni della Commissione.

Sempre per snellire il lavoro organizzativo del calendario, risulterà utile che gli uffici si facciano parte attiva nella segnalazione di controversie riguardanti la stessa questione per permettere al collegio giudicante di predisporre udienze tematiche. L’Agenzia, inoltre, è in grado di offrire ai presidenti di Commissione il proprio supporto tecnico per le segnalazioni periodiche delle “questioni di rilevante interesse o di ricorrente frequenza”.
L’invito che viene rivolto alle strutture periferiche del Fisco, nel prendere contatto con le segreterie delle Commissioni tributarie, è di sottoscrivere specifici protocolli che consentano la sistematica trasmissione di tutte le sentenze depositate.

Infine, massima collaborazione con i presidenti di commissione da parte delle Entrate per cercare di risolvere eventuali criticità si prefigurino nei rapporti con le strutture territoriali del Fisco nella gestione dei rapporti con le segreterie o con i collegi giudicanti.
Lilia Chini

Fonte: http://www.nuovofiscooggi.it/attualita/articolo/gestire-il-contenzioso-tributario-istruzioni-un-uso-razionale

Ricerca: Fazio, fatta anagrafe ricercatori italiani all’ estero

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Abbiamo fatto l’anagrafe dei ricercatori italiani all’ estero”. Lo ha detto il ministro della Salute Ferruccio Fazio parlando ai medici primari del Cro (Centro riferimento oncologico) di Aviano (Pordenone).
“Il 24 maggio – ha spiegato – faremo a questo proposito un convegno a Cernobbio dove inviteremo tutti gli italiani che all’estero hanno posizioni rilevanti in quanto intendiamo creare dei collegamenti, da finanziare con circa una decina di milioni di euro, tra i nostri ricercatori e quelli che operano all’estero, italiani e non italiani.

Questi finanziamenti – ha specificato Fazio – andranno a favore di studiosi sotto i 40 anni in modo da creare delle possibilità per i giovani ricercatori di viaggiare e di avere rapporti tra loro”.

Fonte: http://lazio-side.it/attualita/news/ricercafazio-fatta-anagrafe-ricercatori-italiani-all-estero.html

Irap, gestione titoli di trading a due vie per le assicurazioni

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Le svalutazioni o rivalutazioni pregresse si possono attribuire solo a quelli acquistati ante riforma 2008
Doppio “magazzino” per la valutazione ai fini Irap dei titoli azionari di trading per le imprese di assicurazione. Se in bilancio sono iscritti sia titoli acquisiti prima della riforma introdotta dalla Finanziaria 2008, ossia fino al periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2007, sia quelli acquistati successivamente, le assicurazioni hanno la possibilità di imputare le svalutazioni o rivalutazioni pregresse ai soli titoli pre-riforma.

È il chiarimento fornito dalla risoluzione n. 20/E del 15 marzo, con cui l’Agenzia delle Entrate precisa che, per calcolare la base imponibile dell’imposta regionale sulle attività produttive, le società assicurative possono memorizzare separatamente i nuovi titoli da quelli già presenti nel bilancio dell’esercizio 2007, attribuendo solo a questi ultimi le svalutazioni o rivalutazioni effettuate in precedenza.
In questo modo, per ogni categoria omogenea di titoli si avrebbero per il Fisco due diversi magazzini e il criterio Lifo (last in first out), usato per valorizzare gli “articoli” in uscita, sarà determinante per individuare quale titolo sia stato ceduto per primo. Una soluzione che semplifica la gestione del portafoglio titoli da trading, facendo coincidere il costo medio ponderato contabile, che varia per effetto dei nuovi acquisti, con il costo medio fiscale Irap.

Alla base di questo ragionamento ci sono le modifiche introdotte dalla Finanziaria 2008 (legge 244/2007) che, sganciando l’Irap dall’Ires, ha fatto sì che la base imponibile del tributo regionale sia determinata direttamente dal conto economico dell’azienda, rendendo di conseguenza rilevanti le svalutazioni o rivalutazioni dei titoli di trading registrati nel bilancio 2007.
Queste operazioni, secondo la disciplina vigente in precedenza, non avevano alcuna rilevanza fiscale. Da qui, l’esigenza di definire la corretta applicazione dell’Irap da parte delle imprese di assicurazioni nella fase transitoria in cui nei bilanci sono presenti contemporaneamente sia titoli acquistati quando era in vigore la vecchia disciplina, sia titoli acquisiti in un secondo momento, nel periodo post-riforma.
Una necessità da cui deriva anche la richiesta di consulenza giuridica presentata all’Agenzia da un’associazione interessata a capire come gestire la differenza tra il valore contabile e il valore fiscale ai fini Irap dei titoli azionari di trading.

Secondo il contribuente, infatti, le imprese che adottano il criterio di valutazione del costo medio ponderato avrebbero, per ogni categoria di titoli, un costo medio contabile diverso da quello fiscale Irap. Una differenza che potrebbe durare a lungo, dal momento che il valore fiscale dei vecchi titoli sarebbe disallineato rispetto al valore di bilancio. Per ovviare a questo problema l’associazione propone di imputare le pregresse svalutazioni o rivalutazioni solo ai titoli esistenti nel bilancio 2007. In questo modo, ad esempio, se i titoli in portafoglio alla fine del 2007 fossero 1.000 e le svalutazioni raggiungessero quota 5.000 euro, il costo medio ponderato contabile di 1.000 azioni verrebbe aumentato di 5 euro ai fini Irap.

Una soluzione, quella proposta dal contribuente, che trova d’accordo i tecnici delle Entrate, secondo i quali l’attribuzione delle svalutazioni o rivalutazioni pregresse ai soli titoli pre-riforma facilita la gestione dei valori Irap dei titoli stessi ed è coerente con l’attuale normativa.

A questa conclusione si aggiungono i chiarimenti forniti dall’Agenzia con la circolare 27/2009, in base ai quali le operazioni civilistiche di svalutazione o rivalutazione effettuate dalle aziende assicurative e di credito sui titoli azionari di trading, che non hanno concorso alla determinazione della base imponibile Irap nei periodi d’imposta precedenti, diventano rilevanti al momento del realizzo dei titoli, a eccezione di quanto previsto per i soggetti Ias.
Laura Mingioni
Fonte: http://www.nuovofiscooggi.it/normativa-e-prassi/articolo/irap-gestione-titoli-di-trading-a-due-vie-le-assicurazioni

Sigari, sigarette e Iva da pagare. Istruzioni sul quando e sul chi

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L’obbligo di versamento ricade sul distributore che applica l’imposta al momento dell’immissione in consumo
È il regime monofasico il trattamento corretto ai fini Iva per la cessione di tabacchi lavorati. In pratica, il distributore provvede a pagare il tributo, determinato in base all’aliquota vigente, scorporando il relativo importo dal prezzo di vendita. Irrilevanti, di conseguenza, le successive cessioni. La speciale normativa, infatti, riservata alla compravendita di sigari e sigarette, generi di monopolio, prevede che il versamento dell’imposta avvenga in un’unica soluzione.
No invece alla procedura disciplinata dall’articolo 50-bis del Dl n. 331/1993 che consente la sospensione d’imposta in caso di trasferimento della merce da un deposito Iva a un altro, se l’introduzione dei beni è avvenuta in virtù di operazioni diverse da quelle indicate nel comma 4.
Sono questi i due punti essenziali della risoluzione n. 21/E del 15 marzo, che risponde a una società che produce e vende fumo.
I depositi accise, secondo quanto disposta dall’articolo 50-bis, hanno la stessa validità fiscale dei depositi Iva e, quindi, consentono di effettuare determinate cessioni di beni in sospensione di imposta, come avviene per le merci provenienti da Paese extra Ue e custodite in depositi doganali: è a questa norma che si appella, in prima battuta, la società istante.
Si tratta di un’azienda che produce sigari, la quale chiede se alla vendita in conto deposito effettuata nei confronti della ditta che curerà la distribuzione della merce sia possibile applicare la sospensione d’imposta, visto che il trasferimento del prodotto avviene da un deposito accise a un altro utilizzato, quest’ultimo, ordinariamente anche come deposito Iva.
L’Amministrazione finanziaria dice no a tale soluzione, in quanto riscontra che non tutte le operazioni di immissione dei beni nel deposito da parte dell’azienda produttrice rientrano tra quelle specificate nel comma 4.
Corretto, invece, il ricorso al regime monofasico per il pagamento dell’imposta, prospettato in seconda battuta dalla società.
Il commercio e la tassazione dei tabacchi, trattandosi di generi di monopolio, sono sottoposti a normative specifiche, due in particolare: l’articolo 74 del Dpr 633/1972, con il quale viene stabilito che è il distributore (una volta Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, che ne era anche produttore) a dover versare l’imposta, e l’articolo 4 della legge 76/1985, secondo il quale per i tabacchi lavorati “l’imposta sul valore aggiunto è dovuta in una sola volta”.
In pratica, versa l’Iva chi cura la distribuzione dei tabacchi lavorati presso i rivenditori autorizzati e l’imposta va applicata al momento dell’immissione in consumo tramite il metodo del regime monofase, scorporando dal prezzo di vendita l’importo del tributo, determinato secondo l’aliquota vigente.
Irrilevanti le eventuali operazioni successive come pure quelle avvenute prima che il manufatto arrivasse sugli scaffali del tabaccaio.
Il documento di prassi precisa che non è rilevante il fatto che la disciplina faccia riferimento a un ente pubblico mentre ora il settore è stato privatizzato, perché le modifiche non toccano gli aspetti fiscali della materia e, nel caso specifico, l’unico soggetto legittimato a distribuire il prodotto è anche quello tenuto a pagare il tributo.
L’Agenzia chiarisce, inoltre, che non usufruiscono dello speciale regime gli acquisti di materia prima e semilavorati effettuati dall’impresa produttrice, né le eventuali vendite operate nei confronti di aziende diverse da quella che cura la distribuzione finale. Per questi casi rimangono valide le modalità ordinarie dell’esecuzione della rivalsa da parte del cedente o del prestatore.
La speciale normativa relativa alla tassazione dei tabacchi lavorati, riconoscono i tecnici delle Entrate, è “obiettivamente” di difficile interpretazione ed è per questo che, salvo circostanze particolari valutate dagli uffici, non verranno irrogate sanzioni amministrative nel caso gli operatori del settore non abbiano applicato le modalità chiarite con la risoluzione odierna.
Anna Maria Badiali
Fonte: http://www.nuovofiscooggi.it/normativa-e-prassi/articolo/sigari-sigarette-e-iva-da-pagare-istruzioni-sul-quando-e-sul-chi

La punizione non diventa premio. Sanzioni antitrust non deducibili

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Permettere l’abbattimento del reddito significherebbe accordare risparmi d’imposta a chi ha violato le norme
La sanzione amministrativa (nel caso in esame, quella emessa dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato) conseguente alla violazione, da parte di una impresa, di uno specifico divieto non è connessa all’esercizio dell’attività imprenditoriale – sanzione che, invero, rappresenta l’effetto dell’esercizio scorretto dell’attività stessa – e non può qualificarsi come fattore produttivo; di conseguenza, non può essere considerata un costo deducibile dal reddito.
In questi termini si è espressa la Corte di cassazione, nella sentenza n. 5050 del 3 marzo.

I fatti di causa
Una società chiede il rimborso di imposta relativo alla somma pagata a titolo di sanzione pecuniaria irrogata dall’Antitrust – erroneamente inserita fra le variazioni in aumento del reddito imponibile – sostenendone la natura di componente passivo, deducibile ai sensi dell’articolo 109 del Tuir.
I giudici di merito, sia di primo che di secondo grado, rigettano la richiesta. In particolare, la Ctr afferma che, pur non contenendo il Tuir una norma che esplicitamente vieti la deducibilità delle sanzioni amministrative, la stessa sarebbe “in re ipsa”, trattandosi di sanzione avente natura punitiva di un illecito concorrenziale (e non risarcitoria, come sosterrebbe la ricorrente), ancorché commisurata al fatturato dell’ultimo esercizio precedente.

Avverso tale pronuncia la società propone ricorso per Cassazione nella considerazione che la sanzione in oggetto ha natura “avocativa” e non “punitiva”.
In altri termini, per la ricorrente la sanzione è correlata a una condotta, vietata dalla normativa Antitrust, posta in essere dall’impresa allo scopo di accrescere i propri ricavi, a svantaggio dei consumatori. Rispetto a tale illecita condotta, lo Stato – nel garantire, attraverso le sanzioni, il corretto svolgimento dell’attività economica – avoca a se i ricavi che vengono meno nell’esercizio successivo; circostanza che farebbe rientrare la sanzione fra le “sopravvenienze passive” nel senso indicato dall’articolo 101 del Tuir.

Inoltre, eccepisce la ricorrente, considerando che la deducibilità delle sanzioni non è presa in considerazione da alcuna norma tributaria, sarebbe applicabile, per analogia, la normativa sulla tassazione dei proventi illeciti, ovvero la tassazione su ciò che residua dopo i provvedimenti di sequestro o confisca (nel caso di specie, sul residuo di quanto pagato all’Antitrust a titolo di sanzione).

La decisione della Cassazione
La Cassazione rigetta il ricorso.
L’articolo 15 della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (legge “antitrust”), prevede che, in caso di violazione delle norme che garantiscono la conservazione del carattere competitivo del mercato, venga inflitta una sanzione pecuniaria “fino al 10 per cento del fatturato realizzato da ciascuna impresa o ente nell’ultimo esercizio chiuso anteriormente alla notificazione della diffida”.

Tale norma sanzionatoria, continua la Suprema corte, è in linea con la legislazione comunitaria in materia di violazioni delle regole di concorrenza del mercato (la sanzione deve comunque commisurarsi, secondo consolidata giurisprudenza comunitaria, non soltanto al fatturato e alle dimensioni dell’azienda, ma deve tener conto anche del comportamento, più o meno collaborativo, del soggetto sanzionato).

Nel diritto nazionale, tale sanzione viene determinata in misura variabile, anche se nei limiti del 10% dei ricavi dell’anno precedente, ma non si collega strettamente al reddito, né dell’anno in cui la violazione si è verificata né a quello degli esercizi precedenti, tanto da poter essere qualificata come “sopravvenienza passiva”.

Infatti, secondo la formulazione del citato articolo 15, non è necessario che il ricavo (cui è commisurata la sanzione) abbia concorso a formare il reddito nell’esercizio di competenza o che si riferisca, con certezza, a ricavi che abbiano concorso a formare il reddito in precedenti esercizi.
Il riferimento, contenuto nell’articolo 15 menzionato, all’esercizio precedente a quello in cui si è verificata la violazione, costituisce soltanto un parametro – sulla falsariga della normativa comunitaria – per determinare la misura della sanzione, la quale non necessita di un effettivo incremento di reddito (che potrebbe anche non esserci stato), ma ha soltanto funzione punitiva e deflativa (come deterrente di futuri possibili analoghi illeciti).

Da tali premesse, la Corte di cassazione giunge ad affermare che “pretendere pertanto che l’entità di tale sanzione costituisca un costo deducibile dal reddito imprenditoriale significherebbe neutralizzare interamente la ratio punitiva della penalità, trasformandola in un risparmio d’imposta, cioè in un premio per le imprese che abbiano agito in violazione delle norme antitrust”.

Considerazioni finali
In linea di massima, le sanzioni amministrative – i cui principi generali sono contenuti nella legge 689/1981 – non hanno un loro contenuto specifico; esse, infatti, vengono individuate in modo residuale, quali misure afflittive irrogate nell’esercizio di una potestà amministrativa.

In tale contesto normativo, occorre rimarcare la peculiarità delle sanzioni comminate dall’Antitrust, a seguito della sua attività di vigilanza, avente a oggetto le intese restrittive della libertà di concorrenza, gli abusi di posizione dominante e le operazioni di concentrazione di imprese con determinate caratteristiche.
Tali sanzioni, infatti, sono irrogate – in deroga alla legge 689/1981 – direttamente nei confronti dell’impresa e non della persona fisica che ha commesso la violazione; l’entità non è predeterminata in modo assoluto, nel senso che non sono previsti limiti edittali (minimo e massimo), ma è invece commisurata al fatturato dell’impresa; la sanzione non consegue direttamente alla commissione della violazione, ma alla persistenza ovvero alla particolare gravità della violazione stessa; infine, le somme incassate a tale titolo sono destinate a iniziative a vantaggio dei consumatori.

Queste peculiarità attribuiscono alle sanzioni irrogate dall’Antitrust natura punitiva – come precisato anche dal Consiglio di Stato (cfr sentenza 1671/2001) – che osta, in ogni caso, alla sua deducibilità. Senza dimenticare, infine, che alle somme pagate a titolo di sanzione non può essere riconosciuto un carattere strumentale all’attività svolta e, di conseguenza, non si configura il requisito “dell’inerenza” che rappresenta il presupposto necessario per poter dedurre le somme pagate.

Per completezza di trattazione, si fa presente che l’Amministrazione finanziaria già da tempo ha escluso la deducibilità delle sanzioni Antitrust nella determinazione del reddito di impresa (cfr risoluzione 89/2001, circolare 98/2000), anticipando, di fatto, l’orientamento espresso dalla Cassazione.
Marco Denaro
Fonte: http://www.nuovofiscooggi.it/giurisprudenza/articolo/la-punizione-non-diventa-premio-sanzioni-antitrust-non-deducibili

UE: riunione in Calabria delle autorita’ di ”Audit”

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Domani ci sarà in Calabria la riunione delle autorita’ di ”Audit”, authority di controllo delle Regioni italiane sui fondi europei. In occasione del coordinamento nazionale delle Ada (Autorita’ di Audit), svoltosi a Roma il 4 febbraio scorso, e’ stato deciso infatti che sara’ la Regione Calabria ad ospitare la riunione di tutte le Audit delle regioni.
Alla riunione del 18 marzo parteciperanno anche rappresentanti dell’Igrue, Uver, Mef, Ministero del Lavoro e della Commissione Europea. La riunione servira’ per fare il punto sulle problematiche tecniche connesse alla chiusura della programmazione europea 2000-2006, e quindi si lavorerà anche sull’avvio ed i primi risultati della programmazione 2007-2013.
Fonte: http://www.regioni.it/newsletter/newsletter.asp?newsletter_data=2010-03-17&newsletter_numero=1539#art3